Francesco Totti ha rilasciato un’intervista a "Sette", il settimanale del "Corriere della Sera". L’ex capitano della Roma, in vista dell'uscita della serie tv dedicata alla sua storia sportiva ("Speravo de morì prima"), ha toccato diversi temi, a partire dalla recente positività al Covid. Queste le sue risposte alle domande di Walter Veltroni, dopo le anticipazioni uscite nella giornata di ieri:
rassegna stampa roma
Totti: “Nessun contatto con i Friedkin. Dispiaciuto di non essere più dentro la Roma”
L'ex capitano: "Sono cresciuto là e morirò lì dentro. Con Spalletti chiusura definitiva. Il Covid? Ho avuto paura"
Hai avuto il Covid in maniera seria, come l’hai vissuto?
È stato abbastanza aggressivo con me. Ho avuto una polmonite bilaterale, febbre a quaranta, tosse continua ed ero stanco, non avevo fame. Sono stati ventiquattro giorni molto duri. Avevo la saturazione a 89-90 e in quell’occasione ci sarebbe voluto il ricovero, però ho rifiutato. Avevo paura, per quello che era successo a mio padre due mesi prima. E allora ho cercato di stare il più possibile a casa ed andare avanti a cortisone, antibiotici, eparina. Con i farmaci sono riuscito ad uscirne, ma è stata veramente dura. È stato un incubo durato quasi un mese.
Hai avuto paura?
Dopo dieci giorni di punture, antibiotici, cortisone, vedevo che non c’era miglioramento. Sì, allora ho temuto. I ragazzi si sono spaventati, anche loro tutti positivi, per fortuna asintomatici. Ilary, le tate, il giardiniere, tutti. Tutti quelli che mi circondavano l’hanno preso.
Quanto ti manca tuo padre?
Tanto, troppo. Penso che ogni figlio coltivi il timore della perdita del padre. È una figura molto importante, dà sicurezza. Insegna e rassicura, guida e accompagna. Ora lo misuro da padre, nel rapporto con Cristian, specialmente, ma anche con le bambine. Un padre si sa che c’è, comunque. Se è un buon padre. E il mio lo era, eccome. Anche non vedendolo, anche non sentendolo. Sapevo che c’era sempre quella figura che in qualsiasi momento poteva aiutarti, soccorrerti, consigliarti, sempre rendersi utile.
Ti ricordi una frase di tuo padre che ti è rimasta impressa?
Mi ha sempre detto che a calcio ero una pippa. Non la cancellerò mai dalla mente. Sicuramente lo faceva apposta. Per spronarmi, per non farmi dare delle arie, non farmi essere spaccone o presuntuoso. Ecco, questo è un altro rammarico che mi porto dentro: prima di non vederlo più gli avrei chiesto: “Papà, perché mi dicevi sempre così?”. Questa è la domanda che gli avrei voluto fare.
Torniamo un attimo al giorno dell’addio. Allora ti immaginavi che saresti stato come sei oggi?
No, sinceramente. Pensavo di aver fatto un percorso straordinario, una carriera incredibile. Però immaginavo che quel giorno sarebbe stato l’apice, poi l’attenzione e la passione della gente sarebbe andata scemando. Di solito non dico che le persone dimentichino ciò che hanno fatto determinati giocatori, però è naturale che il tempo consumi e ingiallisca un po’ tutto. Invece con me succede il contrario, non riesco a capirne la motivazione. Forse perché adesso mi guardano con un altro occhio: prima ero il capitano della Roma, potevo essere antagonista, ero amato, ero odiato. Invece adesso mi fanno sentire come una leggenda di tutti e ovunque vada, in Italia o in Europa, mi gratificano di un amore sincero, come non avrei mai pensato succedesse. Neanche quel giorno, tra le lacrime dell’Olimpico.
Rivedi quelle immagini ogni tanto?
Purtroppo sì, perché spesso vengono rimandate in onda su Sky o altrove. Dico sempre a me stesso che prima della lettura della lettera devo smettere, cambiare canale e invece poi non ci riesco. È più forte di me, è una cosa mia, un film della mia vita e del mio amore per il calcio, per la Roma, per Roma e non posso voltare pagina. Così finisce che lo guardo per intero e – non so se dovrei provare vergogna – ogni volta mi commuovo.
Guardando la serie televisiva hai scoperto qualcosa di te stesso che non sapevi?
Nel documentario ero io che raccontavo, per me era più facile identificarmi. E comunque mi sono riconosciuto. Come anche nella serie, che era più difficile perché è finzione, invenzione e io non ero più l’io reale ma un attore che doveva fare quello che facevo io. Un meccanismo che mi ha fatto capire alcune alcune cose del mio carattere, del mio modo di fare che solo l’occhio degli altri ti può mostrare con sincerità e schiettezza. Il modo di agire, lo sguardo, alcuni comportamenti con l’allenatore, con i compagni. Cose che ricordi di aver fatto, perché alla fine sono cose tue, ma che la finzione ti mostra, dall’esterno, mentre le facevi. Come se ci fosse una telecamera capace di filmare tutta la tua vita.
C’è qualcosa che vorresti dire a Spalletti dopo il conflitto e dopo tutto questo tempo?
No, per me è stata chiusa nel momento in cui lui è andato via e io ho smesso di giocare. Per me lì c’è stata la chiusura definitiva. È inutile dire che ci sarebbero altre cose da sottolineare o da fare. Non servirebbe a niente, ormai è successo. Ha sbagliato lui, ho sbagliato io, ha sbagliato la società, non so chi ha sbagliato. Ormai è successo, è passato. Mettiamolo nel dimenticatoio, giriamo pagina.
Quanto ti dispiace non essere più dentro la Roma?
Tantissimo. Tantissimo perché per me era non dico la seconda casa ma quasi la prima. Sono cresciuto là e morirò lì dentro. Per me era impensabile un giorno cambiare strada e andare via da Trigoria. Ma stavo con le spalle al muro, non potevo sottrarmi, dovevo prendere questa decisione. Drastica, brutta, però ho dovuto farlo per rispetto a me stesso. E ai tifosi.
Cosa ti piacerebbe fare in questa nuova Roma, quella di Friedkin?
Sinceramente non ci ho mai pensato e non ci sto pensando. Adesso ho intrapreso questo nuovo lavoro, il management dei giovani talenti, e quando parto con una nuova avventura, cerco di portarla a termine. Ora lasciare alcune persone per strada e ritornare nella Roma mi sembrerebbe scorretto nei confronti di questi ragazzi. Poi tra due, tre, cinque, dieci anni, chissà. Nella vita mai dire mai. Quando ci sarà l’occasione di incontrarsi con loro ne parleremo con serenità, con tranquillità.
Fino adesso non ti hanno chiamato?
No, fino adesso non c’è stato alcun contatto.
Com’è cambiato il calcio dai tuoi tempi?
È cambiato in tutto e per tutto. Più che altro sono cambiati i giocatori. Prima c’erano più giocatori tecnici, c’era più classe, più estro, più scuola non solo di tattica ma dei fondamentali. Era diversa la testa dei giocatori. Sono successe tante cose: prima l’arrivo dei social che ha fatto sbarellare e rendere più individualisti i giocatori, poi questa anomalia di un campionato col Covid e senza pubblico. Ma il problema è più di fondo, stanno sparendo i campioni. Prima tu andavi allo stadio e sapevi che, qualsiasi squadra venisse a giocare all’Olimpico o in un altro stadio, c’erano sempre da ammirare uno, due, tre giocatori fuoriclasse che ti avrebbero fatto divertire. Ora ci sono meno campioni e più giocatori costruiti.
Qual è l’errore più grande della tua vita?
In un percorso di quasi trent’anni di di errori se ne fanno tanti. Diciamo il calcio a Balotelli e lo sputo a Poulsen. Quelle sono state le cose più brutte che potessi fare, cose non da me. Tuttora non riesco a capire come possa aver compiuto gesti simili. Forse lo può capire o spiegare solamente chi è stato in campo. È un’altra dimensione, una condizione in cui si possono vivere anche stati d’animo e comportamenti che non ti appartengono.
Quando hai smesso era il momento giusto o sei stato costretto dalle circostanze?
Sapevo che prima o poi avrei dovuto smettere. Bisogna essere realisti. A quaranta anni è pure difficile arrivare e continuare a giocare al livello giusto. Però nel mio caso sono stato costretto. Neanche costretto, come se avessero voluto mettere un punto, tirare una riga e cancellare. Senza parlarmene, senza rendermi partecipe. Una soluzione si poteva trovare, insieme. Avrei voluto smettere in un altro momento. Avrei voluto essere io a prendere la decisione, perché quando arrivi a quell’età è anche giusto smettere. Però in quel momento stavo bene fisicamente, stavo bene di testa, non pretendevo niente perché io non ho mai preteso niente da nessuno, non volevo giocare a tutti i costi. No, facevo parte del gruppo e se ogni tanto si riteneva opportuno che io potessi scendere in campo sarei stato o pronto, come sono sempre stato. Ma girarmi le spalle e non darmi la possibilità di far vedere che ancora potevo dire la mia mi è dispiaciuto, molto.
Tre nomi: Mazzone, De Rossi, Cassano. Mazzone com’era?
Mazzone per me è stato un secondo padre perché mi ha cresciuto e l’ho incontrato nel momento più complicato che un giovane possa trovare in una crescita calcistica e umana. Lui mi ha insegnato valori, comportamenti, ha fatto emergere i miei talenti. Mi ha gestito a trecentosessanta gradi.
Daniele?
Daniele, gran giocatore, è stato un fratello, è sempre stato mio tifoso. Quando giocavo lui faceva il raccattapalle e, come ha detto lui, sono sempre stato un suo idolo. Siamo cresciuti quasi insieme. Mi dispiace che abbia fatto il capitano per così poco tempo. Gli ho fatto un po’ da tappo, ma non è stata colpa mia.
E quel genio sregolato di Cassano?
Cassano è stato il giocatore con il quale mi sono divertito più di tutti, abbiamo fatto delle cose impensabili, da circo. Però per me lui si è espresso al trenta, quaranta per cento delle sue potenzialità. Diciamo che si è messo accanto alcune volte delle persone che non gli hanno fatto del bene. Spesso ha sbagliato i modi e i tempi di certe scelte. Gliel’ho sempre detto: se lui mi avesse ascoltato un po’ di più, avrebbe fatto la mia stessa trafila, cioè sarebbe rimasto a Roma per vent’anni, di sicuro. A Roma la gente era innamorata di lui. Cavolate o non cavolate, carattere non carattere, lui in campo era quello che era. Un fenomeno.
Se tu potessi domani mattina rivivere una giornata della tua vita, quale sceglieresti?
Rivivrei la giornata successiva alla partita dello scudetto. Per quello di incredibile che è successo a Roma. Non tutta la giornata, solo la sera dopo il fischio finale e tutto quello che è venuto dopo.
Da sindaco dovetti organizzare due volte dei festeggiamenti al Circo Massimo: per lo scudetto giallorosso e per il mondiale del 2006. Tu a quale dei due sei più affezionato?
Sono due serate che mai avrei pensato di vivere da protagonista. Pensa se me lo avessero detto da bambino, mentre giocavo per strada a Porta Metronia. Era un sogno, e alla fine ci sono riuscito. Sono due serate indescrivibili, raccontarle non è facile. Dire quello che provavi, la sensazione, la gente, essere campioni d’Italia, essere campioni del mondo. Nella vita il treno passa una volta sola, o ci monti o non ci monti. Fortunatamente sono riuscito a farli, quei viaggi incredibili.
Tante volte, nel passato, ho detto a te e a Carlo Verdone che dovreste interpretare insieme un remake di "In viaggio con papà", il film che Carlo girò con Sordi. Allora giocavi, ora lo faresti?
Se Carlo se la sentisse, perché no?
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