Storia AS Roma

A cura di Mirko Porcari 

LA NASCITA

C'è una storia da raccontare, nata nell'afa di un'estate da ricordare e figlia di un'epoca di fotografie in bianco e nero. “Gli sportivi romani esulteranno...” Gli articoli dei quotidiani del 1927 differiscono poco da quelli attuali: o meglio, già allora si cercava di descrivere in poche parole un sentimento allo stato embrionale, un amore in giallo e rosso nato dalla voglia di dare alla città qualcosa che la rappresentasse per davvero. “Abbiamo troppe squadre a Roma, ne servirebbero poche ma più forti...” la voce di popolo aveva invocato la nascita di una squadra che potesse davvero portare in giro per l'Italia il nome della Capitale, senza sfigurare di fronte alle potenze calcistiche che, già da allora, si concentravano nella parte nord della penisola. Tra gli inizi di giugno (le prime notizie ufficiali, riportate da «Il Tevere» e «La Gazzetta dello Sport», sono datate 8 e 9) e la fine di agosto del 1927, viene creato il nuovo mondo dell'As Roma: la fusione di Alba, Fortitudo e Roman (tre compagini storiche in ambito capitolino) fa nascere l'associazione sportiva (“la società praticherà i tre seguenti sport: calcio, atletica e ciclismo” si legge su «Il Tevere» dell'8/6/1927) che conosciamo oggi. C'è voglia di campo, voglia di ammirare da vicino le ambizioni di un progetto che raccoglie i calciatori più talentuosi provenienti dall'accorpamento delle tre società: nomi come quelli di Ferraris IV, Cappa, Corbyons e Ziroli affrontano in maglia giallorossa (“i colori di Roma, con la lupa capitolina come simbolo”) gli ungheresi dell' U.T.E., l'attuale Ujpest. Una doppia amichevole, tra il 16 e il 17 luglio 1927, che infiamma il Montevelodromo Appio, scelto come campo principale (campo Testaccio, almeno inizialmente, fungerà da struttura per gli allenamenti): il primo giorno, alle 18, sul rettangolo di gioco scende la “Roma B” e lo spettacolare 2-2 finale è solo l'antipasto alla bella vittoria del giorno dopo. La prima formazione “vera” è guidata da due allenatori (Piselli, ex tecnico dell'Alba e King, ex Fortitudo): Rapetti, Mattei, Corbyons, Ferraris IV, Degni, Caimmi, Heger, Boros, Rovida, Cappa, Ziroli. È la festa della gente (“la giornata è riuscita interessantissima ed ha pienamente soddisfatto il pubblico che si assiepava in ogni ordine di posti[...] da «Il Tevere» del 18/7/1927), di un popolo che finalmente può riconoscere la propria storia in uno sport che in Italia c'è da soli 30 anni ma che è già seguitissimo: la città di Roma scende in campo, spingendo la neonata squadra (capitanata da Ferraris IV) verso una vittoria per 2-1. I primi passi ufficiali della società consistono nella ratifica dell'ordine del giorno numero uno: è il 22 luglio del 1927 e dal civico 35 di Via degli Uffici del Vicario il presidente Italo Foschi annuncia, nero su bianco, le cariche dell'organigramma societario: “Presi accordi con l'Amministratore Delegato On. Igliori e sentito il parere del Presidente Onorario Comm. Guglielmotti, ho concretato le norme esecutive per la Costituzione dell'Associazione Sportiva Roma[...]” Da questo documento nasce la convinzione comune sulla data di nascita, perché rappresenta l'unico attestato che è arrivato fino a noi, mentre della riunione (7/6/1927) di Via Forlì 16 tra Foschi (Fortitudo), Igliori (Alba) e Sciaoja (Roman) non restano atti o certificazioni.

GLI INIZI

La polvere e “i serci” del Montevelodromo Appio raccontano i primi passi della squadra del popolo: dal 1927 al 1929 i giallorossi cominciano ad abbracciare una fetta sempre più ampia di tifosi e l'inserimento nella Divisione Nazionale sancisce l'ascesa della Roma nell'Olimpo delle big italiane. L'esordio nel calcio professionistico è salutato con l'entusiasmo che, da quel momento in poi, caratterizzerà tutta la storia della formazione capitolina: 2-0 al Livorno (Ziroli e Fasanelli), un successo che gli uomini di Garbutt (allenatore inglese con un passato vincente nel Genoa) condividono volentieri con i propri supporters. I viaggi su è giù per la penisola portano la Roma a confrontarsi con realtà affermate come quelle dell'Internazionale, del Bologna e della Juventus, alla fine della stagione non ci saranno soddisfazioni in termini di playoff (all'inizio il campionato era diviso in due gironi dove le prima quattro si scontravano per il titolo) ma arriverà comunque un trofeo, la Coppa CONI. Inserita nel girone con Novara, Brescia, Pro Patria, Dominante e Napoli, la Roma termina prima dopo una cavalcata tra la primavera e l'estate del 1928: la finale è con la capolista dell'altro girone, il Modena, e le cronache del tempo narrano di una tripla sfida ricca di agonismo. L'andata, all'Appio, si conclude con un tiratissimo 0-0, mentre il ritorno vede le due squadre pareggiare 2-2. La finalissima, sul campo neutro di Firenze, si gioca alle sei del pomeriggio con una temperatura vicina ai 35 gradi: i giallorossi si impongono per 2-1 (Corbjons su rigore e Bussich) ed il trofeo in bronzo dorato diventa l'idolo intorno a cui si scatena la gioia dei tantissimi tifosi rimasti nella capitale (“che ha fatto la Roma?” la domanda più gettonata tra chi, sotto le redazioni dei quotidiani, aspettava novità telegrafate dalla Toscana), teatro del primo momento di felicità collettiva legata ai colori giallorossi.

E VENNE IL DERBY

L'idea iniziale di Italo Foschi era quella di unire le diverse realtà calcistiche romane sotto un'unico simbolo, portato in giro per l'Italia sventolando i colori della città di Roma: il primo, timido, tentativo riguardava anche la Lazio, società nata nel 1900 con una vocazione prettamente locale, ed ai margini delle competizioni maggiori a livello nazionale. I testimoni dell'epoca parlano di un pressing asfissiante di Foschi nei confronti del generale Giorgio Vaccaro (prima socio della società biancoceleste ed in seguito vicepresidente) affinchè la fusione abbracciasse anche la polisportiva laziale ma il 1927 rappresentò ufficialmente l'anno in cui nella capitale ci sarebbero state due squadre contrapposte. Per concretizzare la rivalità filosofica (l'immaginario collettivo ha sempre alimentato la dicotomia tra la squadra del popolo, la Roma, e quella delle élite borghesi, la Lazio) si dovrà attendere il 1929: il giorno dell'Immacolata sancisce il primo passo verso una supremazia romanista nelle stracittadine, un gol di “sciabbolone” Volk gela il campo laziale della Rondinella. Tra grandi soddisfazioni (il 5-1 con quadripletta di Montella, le sfide “personali” di Manfredini ed i record di Da Costa, Delvecchio e Totti, tanto per citarne alcuni) e momenti bui (la sconfitta di Coppa Italia su tutti), la Roma ha ottenuto uno score decisamente postivo nelle sfide contro la Lazio: i numeri parlano di 64 vittorie giallorosse (contro le 50 laziali) tra campionato, coppe e amichevoli, mentre i pareggi si attestano a quota 61.

CAMPO TESTACCIO

“Cor core acceso de la passione, Undici atleti Roma chiamò[...]” il tango popolare scritto da Toto Castellucci diviene presto l'inno dei tifosi romanisti: rispolverato in tempi recentissimi, “Campo Testaccio” è stata la canzone che ha accompagnato la Roma nelle avventure casalinghe a ridosso del Mattatoio. Già nel secondo anno al Montevelodromo Appio si era capito come la Roma avesse bisogno di un terreno di gioco che riuscisse ad esprimere, in termini tecnici e affettivi, tutta la qualità della squadra e l'amore dei propri tifosi: costato ai soci 1 milione e 400 mila lire, il campo di Testaccio rappresentava la sintesi perfetta del sogno inglese di Foschi e Sacerdoti, presidenti legati profondamente al modo di vivere il football proveniente dal Regno Unito. Dalla pozzolana dell'Appio al manto erboso, un gioiello a pianta quadrata in legno dipinto di giallo ocra e rosso vermiglio, inserito in un quadrilatero tra via Zabaglia, Via Marmorata, Via Galvani e Via della Piramide Cestia. Il cuore popolare di Roma, insomma. Tra il 1929 e il 1940 (fu buttato giù per la revoca della concessione del terreno) prese vita il mito della Roma e dei suoi tifosi: se si guardano i numeri, infatti, si capisce come i giallorossi siano stati legati profondamente con l'atmosfera che si respirava quando i 27 mila spettatori spingevano la squadra. Su 161 gare disputate (più 53 tra Coppa Europa, Coppa Italia e amichevoli varie) sono state 105 le vittorie, 31 i pareggi e solo 25 le sconfitte, statistiche che ancora oggi farebbero invidia a qualsiasi compagine professionistica. “L'affetto della folla romanista è stato per me il maggior conforto della mia carriera...” così Guido Masetti, “primo portiere”, ricorderà in seguito gli anni passati a respirare la romanità di Campo Testaccio: apoteosi di un brivido comune fu il 5-0 alla Juventus nel 1931, vittoria schiacciante che divenne un film per volontà di Mario Bonnard (regista) e del produttore Peppino Amato. Tanti allenatori (da Baccani a Barbesino, passando per Ara, Kovacs e Baar, finendo ad Alfred Schaffer) e moltissimi giocatori (da Bernardini a Volk, senza dimenticare i vari Guaita, Chini, Donati e, ovviamente, Amadei) alimentarono la magia di Testaccio: dopo anni di incuria e oblio, lo scorso anno i tifosi prima e la società poi hanno compiuto passi concreti verso la riqualificazione dell'area, destinata con tutta probabilità ad ospitare alcune selezioni giovanili giallorosse.

IL PRIMO SCUDETTO

“Io facevo il fornaio...poi è arrivata la Roma...partivo in bicicletta da Frascati per venire a fare i provini...” storia di un predestinato, nato e cresciuto a pane e pallone: Amadeo Amadei è stato la Roma, cuore pulsante della squadra che ha regalato al popolo il primo scudetto della storia. Il calcio aveva cominciato ad assumere i connotati di un movimento collettivo, capace di mobilitare folle e indirizzare gli umori delle persone: l'esplosione romanista ne fu chiaro esempio, nelle ristrettezze imposte dalla guerra in molti trovarono il tempo di dedicare la propria domenica alla Roma, guardando oltre la precarietà della vita quotidiana. Da Testaccio si passa allo Stadio Nazionale del Partito Nazionale Fascista (quello che oggi conosciamo come Stadio Flaminio), un salto che non spegne l'affetto della gente romanista nei confronti di un gruppo che farà storia: il tricolore arriva dopo una vera e propria cavalcata, la squadra è prima per 22 giornate su 30, aggiudicandosi anche il titolo di “campione d'inverno”. I ragazzi di Alfred Schaffer lottano fino all'ultimo con avversarie come il Torino e il Venezia, più attrezzate sulla carta ma carenti in termini di continuità di rendimento: le porte per la riuscita finale si aprono con la vittoria interna contro il Napoli (5-1) per chiudersi nel giugno '42 con i due gol al Modena che fanno esplodere lo Stadio Nazionale. In mezzo ci sono le storie dei protagonisti, dal bomber Amadei (18 reti) alla scommessa Andreoli, senza dimenticare elementi come Brunella, Coscia, Pantò e Mornese: l'alchimia creata da Schaffer si legava ad uno schieramento – il “Metodo” a W – che divenne il tratto distintivo del calcio lineare ed organizzato praticato dalla Roma. Le cronache del tempo narrano di partite dominate (“La Roma regola un Napoli inconsistente” si legge sul «Littoriale» del 26/10/1941; “slancio e autorità, la Roma si impone sul Milano per 2-0” da «Il Messaggero» del 30/11/1941) in cui i giallorossi leggittimano domenica dopo domenica una supremazia da subito evidente. Voci fuori dal coro sono quelle che arrivano da alcuni quotidiani sportivi del Nord, intenti a sminuire la corsa romanista con sospetti sulla regolarità del campionato: tutto ha inizio da una lettera che fa nascere la leggenda metropolitana dello “scudetto di Mussolini”, e che divide il popolo giallorosso dal resto dell'Italia calcistica. “Mussolini? Ma se era della Lazio...”, la memoria storica degli innamorati di Roma ha faticato ad allontanare le dicerie su simpatie più o meno velate del Duce (peraltro socio onorario della Lazio dal 1929...), protagonista di un intreccio politico-calcistico nel cuore della seconda guerra mondiale: Eraldo Monzeglio, ex calciatore romanista e direttore tecnico giallorosso nel 1941-42, inviò una lettera al dittatore affinché intercedesse con l'esercito per avvicinare alla capitale cinque titolari e due riserve. Così Amadei, Andreoli, Coscia, Borsetti, Pantò, Ippoliti e Jacobini non partirono per il fronte ma, al contrario, furono destinati alla caserma di San Francesco a Ripa. Tentativi di ridimensionamento a parte, la Roma meritò pienamente quello scudetto: sono i numeri a certificarlo, statistiche che disegnano una camminata trionfale, dove raramente la forza degli uomini di Schaffer era stata in discussione. Trenta partite disputate, 16 vittorie, 10 pareggi e 4 sconfitte, 55 furono i gol fatti, 21 quelli subiti e la festa con i bersaglieri alla chiusura del campionato (è storica la prima pagina del «Littoriale» datata 15/6/1942 nella quale campeggia la scritta “La ROMA campione d'Italia!”) fu solo l'inizio di un periodo felice per una città segnata dalla durezza della guerra.

LA ROMA “CADETTA”

Nonostante il secondo conflitto mondiale, il calcio era riuscito a regalare momenti di pura gioia agli innamorati dei colori giallorossi: nei rioni il successo romanista aveva portato una ventata di ottimismo e la consapevolezza di poter recitare un ruolo da protagonisti nel panorama nazionale, ma la realtà del campo e le vicissitudini europee destinarono la Roma ad un anonimato senza precedenti. L'anno dopo lo scudetto la squadra capitolina partiva con il favore del pronostico: una rosa esperta e compatta guidata da Schaffer, assoluta garanzia dal punto di vista della tenuta del gruppo, ed una maturità acquisita dalla vittoria della stagione precedente. Tra le ombre della guerra (l'allenatore dovette abbandonare la squadra dopo 11 giornate per tornare in patria) ed una serie di episodi “sfavorevoli” nei rapporti con gli arbitri (esemplificativa la squalifica a vita comminata – ma in seguito ritirata - ad Amadei per un presunto calcio al guardalinee nella semifinale di Coppa Italia contro il Torino) la Roma si ritrova a metà classifica alla fine del campionato, ammirando i campioni d'Italia del Torino agli albori della leggenda sulla grandezza della squadra granata. I due tornei successivi furono sospesi per le operazioni militari, per non perdere di vista il rettangolo verde, a Roma si organizzarono tornei cittadini a cui parteciparono sia i giallorossi che la Lazio. Tornata a calcare i campi della penisola, la squadra giallorossa non era più la stessa di qualche anno prima. Il 1945 vide un nuovo Presidente, l'Onorevole Pietro Baldassarre, ed una tragedia che sconvolse la città in ogni suo angolo: Mario Forlivesi, promessa delle giovanili integrata nella rosa romanista (l'anno prima l'esordio con tripletta in una partita vinta 7-1 contro il Trastevere) come alternativa di Amadei, muore di meningite a 18 anni. Il primo campionato dopo la liberazione vede la Roma attestarsi al sesto posto: è l'inizio della discesa verso la serie cadetta, un climax che porterà i giallorossi a rischiare più volte la retrocessione (nel '47/48 la sfida all'ultimo respiro con la Salernitana porterà molte polemiche tra i campani ed un posto, il 17esimo, che eviterà l'onta della Serie B) fino ad assaporarne i tratti amari nel 1951. Il mondo capovolto dopo lo scudetto aveva lanciato segnali inequivocabili ai tifosi della Roma: nel 1948 c'è la cessione di Amadei all'Inter, atto dovuto a causa delle pessime condizioni economiche in cui versava la società; l'anno dopo c'è l'esonero di Fulvio Bernardini per mano del nuovo Presidente Pier Carlo Restagno; infine il tentativo di rilancio con Guido Masetti per evitare il baratro degli ultimissimi posti, una soluzione di ripiego che non regala sollievo alle sorti sportive romaniste. I più “esperti” tra gli innamorati di Roma ricordano ancora le gesta dei calciatori giallorossi, impegnati più a riempire le colonne riservate al “gossip” che quelle dedicate ai tabellini domenicali: in città non si parla di gol o di giocate ad effetto ma si commentano le voci che raccontano di una vera e propria simbiosi tra gli elementi della rosa ed i locali alla moda della mondanità capitolina. Risultato? La Roma saluta la serie A il 17 giugno 1951 (50 anni dopo, esattamente lo stesso giorno, vincerà il suo terzo scudetto. Scherzi del destino!) dopo una bella vittoria casalinga contro il Milan già campione d'Italia. Il gol all'ultimo secondo del Padova condanna i giallorossi ad una retrocessione (“Le gloriose casacche della Roma discendono la scala d'oro” si legge nelle cronache dell'epoca, chiudendo con il saluto di Mario Ferretti che racchiude malinconia e speranza: “Vecchia Roma ci rivediamo il prossimo anno”) che resterà l'unica macchia sportiva di una storia quasi secolare. In campi come quelli del Fanfulla, del Piombino, del Siracusa e del Marzotto, la Roma deve lasciarsi alle spalle il blasone acquisito in tanti anni da protagonista: sotto la guida di Viani, capitanata da Tre Re e trascinata dai gol di Carletto Galli e Bettini, la compagine capitolina riesce ad imporsi alla fine di una stagione massacrante (non solo per le condizioni dei campi da gioco, spesso al limite della praticabilità, ma anche per le vicissitudini patite dai tantissimi tifosi che in ogni trasferta seguivano in massa la squadra), conclusa al primo posto ad un solo punto dal Brescia. “Tripudio giallorosso” si legge sul «Messaggero» del 23/6/1952 oppure “Ritorno tra le elette” sul «Corriere dello Sport» , all'indomani del pareggio a Verona che regala la matematica promozione alla squadra: dirigenti e calciatori promettono che i colori giallorossi “non affronteranno mai più una situazione del genere, la realtà della Roma è il grande calcio. La Serie A”, un giuramento che nel tempo è diventato una granitica certezza.

LA ROMA ALL'OLIMPICO

In un lampo la città si dimentica della Serie B, seppur ridimensionata nelle ambizioni e nella potenza politica, la Roma vuole riprendersi posizioni importanti nell'oligarchia del calcio italiano. La novità più importante degli anni cinquanta giallorossi è il trasferimento nella nuova casa, destinata a rimanere nel tempo uno dei simboli della passione e del legame tra la città e la squadra: la Roma scopre lo Stadio Olimpico il 31 maggio 1953 (uno scorcio sui prezzi dell'epoca ce lo offre «Il Messaggero» del 30/6/1953: “Tribuna Monte Mario numerata 1350 Lire; Tribuna Tevere 600 Lire; Curve Nord e Sud (a sedere) 300 Lire. Ai suddetti prezzi va aggiunto il Fondo per il Soccorso Invernale”) , in occasione della gara interna contro la Spal , un esordio segnato dalla pioggia battente e da una risposta di pubblico – 15.000 spettatori – non proprio esaltante.

LA ROMA È...FIERA

I primi anni all'Olimpico vedono una Roma impegnata in un'altalena che segnerà il percorso sportivo degli anni '50: in giallorosso si susseguono campioni del calibro di Ghiggia, Charles, Schiaffino, Angelillo e Nordhal, con allenatori più o meno quotati come Carniglia, Stock e Mirò ma i risultati alla fine di ogni stagione parlano sempre di un anonimato cronico. Nel 1958 cambia la presidenza, da Sacerdoti si passa ad Anacleto Gianni ma la sostanza del campo non cambia: la Roma galleggia intorno al sesto posto, senza lasciare particolari spunti nel cuore dei tifosi. Tra la gente comune si parla molto del clima da “dolce vita” che ovatta le giornate dei campioni romanisti: il lato critico dei giornali dell'epoca analizza come l'ambiente capitolino, con le sue luci e la sua fucina di mondanità legata al periodo d'oro di Cinecittà, influisca negativamente sulle prestazioni di alcuni giocatori (in particolare quelli sudamericani), sensibili alle bellezze cinematografiche e alla fastosità di uno stile di vita tutt'altro che morigerato. La svolta, in tema di risultati sportivi, avviene nel 1960-61: in campionato la Roma viaggia sempre sui binari del “vorrei ma non posso”, con un quinto posto che richiama ad una normalità ormai insita nel dna romanista. La vera soddisfazione arriva dalla Coppa delle Fiere, una competizione internazionale la cui idea originale era quella di ospitare le squadre non inserite nella Coppa dei Campioni ma che rappresentassero città con un bacino di utenza importante. Considerata come l'antenata dell'attuale Europa League, la Coppa delle Fiere vide la Roma imporsi in finale nella doppia sfida contro il Birmingham: grande protagonista fu Pedro Manferdini ma la foto che campeggiava su tutte le prime pagine dei quotidiani sportivi del giorno dopo era quella di Giacomo Losi, capitano dell'11 giallorosso e simbolo di un trionfo festeggiato per molto tempo nella capitale.

LA ROMA DI COPPA

Gli anni '60 fanno nascere il mito della “Roma di Coppa”: la mediocrità dei risultati in campionato venne bilanciata da tre coppe nel giro di dieci anni, un bottino di tutto rispetto per una squadra ed una società da sempre in bilico tra il grande salto ed un anonimato peninsulare. Il lunghissimo rapporto di amore e odio con la Coppa Italia comincia nel settembre del 1964: doppia finale contro il Torino (la competizione si prolungò tanto da costringere la FIGC a spostare la gara all'inizio della nuova stagione calcistica) per gli uomini allenati dall'argentino Lorenzo, la prima terminata 0-0 e la seconda (ad oltre un mese di distanza), disputata come ripetizione della prima, vide imporsi i giallorossi per 1-0 con gol di Nicolè a pochi minuti dalla fine. Si ripete, a qualche anno di distanza, l'immagine di capitan Losi con un trofeo da mostrare al proprio popolo: “Roma Tricolore” si legge sulla prima pagine del «Corriere dello Sport» del 1/11/64, una festa che sospende (almeno temporaneamente) l'angoscia per le difficoltà economiche in cui versava la società capitolina. Qui si fonde la cronaca con l'immaginario popolare, una storia condita dall'amore e dalla passione che solamente una tifoseria come quella della Roma avrebbe potuto regalare: è il dicembre 1964, al termine di un allenamento al campo del Tre Fontane, l'allenatore Lorenzo rivela ai tifosi che la società non può permettersi la trasferta a Vicenza, in programma per l'inizio del nuovo anno. Nessun tam-tam radiofonico, nessun appello via internet, solo la voce della gente che riesce a raccogliere 800 mila lire in quella che passerà alla storia come “la colletta del Sistina”: Marini Dettina, presidente della Roma, rifiuterà la somma, donandola agli alluvionati del Vajont ma da lì a qualche mese sarà costretto ad abbandonare la guida della società, lasciando il timone ad Evangelisti. È proprio per i problemi economici che la società dovrà fare da “apripista” nel legame sempre più stretto tra banche e calcio: per ottenere prestiti dalla Banca Nazionale del Lavoro, atti a risanare debiti più o meno profondi, la società dovette trasformarsi in una Spa, fungendo da esperimento che nel movimento italiano troverà negli anni un seguito fortissimo. L'avvicinamento agli anni '70 è segnato da addii dolorosi e tragedie inaspettate: via De Sisti (300 milioni dalla Fiorentina, un record per quei tempi) e Losi, l'ambiente romanista viene scosso dalla morte di Giuliano Taccola, attaccante promessa che si spense a 25 anni negli spogliatoi di Cagliari, una vicenda ancora avvolta nel mistero più fitto. La squadra, nonostante le vicissitudini dentro e fuori dal campo, riuscì a portare a casa un Torneo Anglo-Italiano (finale vinta 3-1 contro il Blackpool il 24/6/1972) e la seconda Coppa Italia: Marchini alla presidenza ed Helenio Herrera in panchina, la Roma dei giovani (Landini, Spinosi e Capello gli esempi più fulgidi, tutti e tre furono poi ceduti per far fronte alla crisi finanziaria della società.) alza al cielo il trofeo dopo la vittoria per 3-1 a Foggia. Passeranno dieci anni prima di riassaporare il gusto di un successo così importante, mentre in Italia si consumano cambiamenti sociali e politici, la società giallorossa si attesta in una dimensione che la stampa del Nord definirà “Rometta”.

LA ROMA DI VIOLA

“Rometta” dicevamo. L'unico aggettivo con cui la stampa del Nord, con Gianni Brera in testa, dipingeva la squadra giallorossa quando abbassava lo sguardo verso squadre che non fossero Juventus, Milan e Inter: fuori dall'élite calcistica italiana, la compagine capitolina aveva abbracciato gli anni '70 con il silenzio di chi sa di non poter competere con le solite super-potenze. Si naviga a vista, con Anzalone (“Ho comprato la Roma da Marini Dettina per 1 miliardo e 480 milioni, l'ho rivenduta a Viola per 1 miliardo e 600 milioni. Ci ho lasciato il cuore” si leggeva in un'intervista di qualche anno fa) stretto nella morsa del pubblico e della critica: modi affabili e con uno stile del tutto particolare, l'allora Presidente raccolse al massimo un terzo posto nel primo anno sotto la guida di Nils Liedholm, un'impresa che ruppe il grigiore dell'anonimato e che venne ribattezzato dai tifosi come “l'Anno Santo” giallorosso. Il lascito più tangibile di Anzalone (in molti, col senno di poi, gli riconoscono anche i primi tentativi di integrare nel calcio i dettami del marketing, non ultima la creazione del “lupetto” commissionato a Piero Gratton e pensato per una maggiore commercializzazione delle maglie) fu la creazione di un centro sportivo che facesse respirare aria giallorossa: Trigoria nacque nel 1978, fuori dal caos e dalle lusinghe della metropoli capitolina, un tentativo di catalizzare tutto il mondo romanista in un'unica struttura. È l'alba di una nuova Roma, cresciuta all'ombra di mostri sacri come Cordova, Santarini e De Sisti e nutrita dalla linfa di giovani come Bruno Conti e Agostino Di Bartolomei: il passaggio di testimone da Anzalone a Dino Viola è il segno epocale di un cambiamento a tutti i livelli, improntato sulla voglia di riscoprire un senso di appartenenza (in qualche modo ci avevano già pensato gli innamorati romanisti, che nel 1977 diedero vita al Cucs e ad un'epoca gloriosa per la Curva Sud) sopito da tempo e sulla necessità di regalare ai tifosi prospettive da grande squadra. Nella mente dell'ingegnere il disegno fu da subito chiaro: salto di qualità, in termini di gestione e di competitività della squadra, tramite un approccio meno “tradizionale” e più legato ad una visione da manager. I risultati nel breve e nel lungo termine, diedero piena ragione ai piani di Viola: la prima metà degli anni '80 fu segnata dalla rinascita della Roma, finalmente nell'Olimpo del grande calcio e specchio di una rottura con le consuetudini del “bel paese”. Ci vuole poco per trasformare un confronto sportivo in una sfida tra mondi agli antipodi: Roma contro Juventus diventa Viola contro Agnelli, la voce del popolo contro quella del padrone, il nuovo contro il vecchio. L'incompatibilità di base diventa antagonismo nel 1980, quando a Torino andò in scena lo scandalo del gol annullato a Turone: Viola, masticando amaro, vide scivolare via uno scudetto toccato più volte in quella stagione, lasciando ai posteri una frase - “lo scudetto è stato assegnato per una questione di centimetri”- che dipingerà benissimo la storia più o meno recente dei bianconeri. La consolazione, se così si può definire, fu la vittoria della quarta Coppa Italia (la seconda per Viola che già l'anno prima si era goduto il trofeo, alzato al cielo da capitan Santarini dopo la lotteria dei rigori vinta contro il Torino) dove i giallorossi si vendicarono battendo la Juventus in semifinale e superando ai rigori il Torino nella doppia finale.

LA ROMA DEL SECONDO SCUDETTO

Le basi ci sono tutte: squadra quadrata ed innesti di qualità che, sin dai primi vagiti degli anni'80, permettono alla Roma di crescere sotto il profilo tecnico e della personalità. Del gruppo guidato da Liedholm fanno già parte calciatori del calibro di Pruzzo, Conti, Di Bartolomei e Tancredi, nel corso degli anni la società provvederà ad integrare la rosa con elementi di spessore altissimo. Il “colpo” più emblematico è quello di Paulo Roberto Falcao: in lizza con Zico in un'estate all'insegna del Brasile, il centrocampista sbarcherà a Roma nel 1980 (pagato 1,5 milioni di dollari dall'Internacional di Porto Alegre) per guidare la regia nella ragnatela del Barone, accolto da un pizzico di scetticismo e dalla curiosità nel capire quanto valga effettivamente il biondo riccioluto. Sarà lui, alla fine dei conti, uno dei simboli dello scudetto del 1982-83 (a proposito di simboli, è nel 1982 che si apre l'era degli sponsor in giallorosso, con la Barilla primo partner ufficiale): a rimpolpare una squadra che l'anno prima aveva raggiunto il terzo posto, arrivano Pietro Vierchowod, Michele Nappi, Aldo Maldera ed Herbert Prohaska, innesti mirati per un gioco sempre più caratteristico. Di Bartolomei, capitano e leader silenzioso del gruppo, agisce da secondo centrale accanto a Vierchowod, una correzione di Liedholm che permette alla Roma di costruire una trama basata sulla superiorità a centrocampo e sulle incursioni di Ago, sull'inventiva di “MaraZico” Conti e sulla vena realizzativa del “bomber” Pruzzo: si comincia a Cagliari, un 1-3 che indirizza subito il campionato, grazie anche alla sconfitta della Juventus contro la Sampdoria. Il resto è cronaca di una maratona avara di soste: la marcia della Roma è regolare, pochi cali di tensione (alla fine della stagione si conteranno solamente tre sconfitte, due maturate contro la Juventus e una contro la Samp) ed un'alchimia che il gruppo coltiva giornata dopo giornata. La svolta, a detta di molti, alla 25esima giornata (anche se, per stessa ammissione di Dino Viola, la gara vinta a Pisa “ha dato alla squadra la consapevolezza di essere davvero la più forte”), quando i giallorossi pareggiano per 2-2 a Firenze, scacciando le paure nate dopo la sconfitta interna contro la Juventus di due settimane prima: non è tanto il risultato del Comunale, quanto la sconfitta patita dai bianconeri nel derby con il Torino, una rimonta da 0-2 a 3-2 festeggiata nella Capitale come una vittoria giallorossa. “Il vecchio cuore del Toro dà lo scudetto alla Roma” la sentenza del «Corriere dello Sport» di lunedì 28/3/1983: è l'ennesimo segnale che spinge il popolo romanista a crederci, da quel momento in poi la discesa verso il titolo passava soprattutto per l'Olimpico, fattore più che decisivo nel corso di tutto l'anno. L'apoteosi, però, è a Genova: il Marassi si colora di giallorosso, sono oltre 12 mila i tifosi che invadono il capoluogo ligure in occasione della penultima giornata e la festa romanista si tramanda ancora tramite le foto di chi c'era e grazie ai desideri di chi voleva esserci. Pareggio, triplice fischio e invasione di campo: Liedholm alzato a spalla che mostra il sorriso dei giorni migliori - “ormai mi sento romanista” confesserà nel climax della festa- i calciatori seminudi che cercano di realizzare quanto concreta sia la gioia in un mondo come quello giallorosso. La Capitale che impazzisce con il tricolore sul petto, colori che si confondono e che riprendono vita nel giro di campo contro il Torino nell'ultima gara del campionato.

LA ROMA E LA NOTTE DI COPPA CAMPIONI

“Scudetto? Sono contento ma noi cominceremo a lavorare subito, non ci prendermo nemmeno un po' del riposo concesso alla squadra” parole di Dino Viola che si confessa a poche ore dalla conquista del titolo italiano: dietro all'uomo con l'impermeabile c'è lo stratega che ha imparato presto a conoscere l'ambiente romanista, fatto di tanto amore e di sentimenti spesso contrastanti, capace di esaltarsi e di deprimersi con facilità impressionante. Pianificare il futuro, subito ed in modo lucido: all'orizzonte c'è una stagione ricchissima di eventi, dove la squadra dovrà difendere il titolo e combattere per regnare anche nell'Europa dei grandi. Via Vierchowod e Prohaska, arrivano Cerezo e Graziani, con Giannini ripescato in prima squadra dopo l'infelice esordio di due anni prima: in Italia la Roma è la squadra da battere e si rinnova il duello con la Juventus; in Coppa Campioni c'è la voglia di onorare la presenza con un cammino che trasformi la compagine giallorossa da principessa a regina. La stagione scivola via sognando un “triplete” antesignano, a fine anno l'unica vera gioia sarà quella della quinta Coppa Italia: il campionato si chiude con un secondo posto al fiele, frutto di una lotta all'ultimo punto con la rivale di sempre, la Juventus, mentre in coppa tutto quanto lascia intravedere il coronamento dei desideri onirici di tutti i tifosi. La Roma, in serie, regola avversarie come Goteborg, Cska Sofia, Dinamo Berlino e Dundee United (la gara di ritorno, vinta per 3-0 dalla squadra di Liedholm, è stata oggetto di polemiche per il “presunto” accordo da 100 milioni tra Viola e l'arbitro del match, Michel Vautrot) , costruendo i propri successi grazie al clima amico dell'Olimpico: spesso in rimonta, i giallorossi asfaltano il percorso verso la finale nello stadio di casa. “Oltre 1 miliardo di persone vedrà la finale di questa sera!”, le prime pagine dei quotidiani, sportivi e non, celebrano la portata di un evento che rappresenta la favola perfetta: la gioia più grande per uno sportivo, da vivere tra la propria gente, nella propria città e con il favore del pronostico. Il 30 maggio del 1984 l'ultima tappa della Coppa Campioni mette di fronte Roma e Liverpool: nella Capitale non si parla di altro da settimane e la passione è così densa da saturare ogni tipo di discorso, la preparazione alla gara si snoda tra le file interminabili per accaparrarsi un biglietto e gli allestimenti “teatrali” in ogni quadrante dell'Urbe. “Notte di sogni, di coppe e di campioni...”l'urlo strozzato di Venditti è quello del Circo Massimo, dove nasce ufficialmente la “maledizione del maxischermo”, pochi chilometri dall'Olimpico e stessa amarezza: 1-1 alla fine dei tempi regolamentari, a Neal risponde Pruzzo prima della lotteria dei calci di rigore. È la notte del “gran rifiuto” di Falcao, degli errori di Conti e Graziani e delle lacrime che non si cancelleranno mai, un incubo che traccia il solco nella storia futura della squadra giallorossa.

LA ROMA DA VIOLA A CIARRAPICO

“La Roma non ha mai pianto e mai piangerà. Perché piange il debole, i forti non piangono mai.” Dino Viola a cuore aperto, una carezza immaginaria al popolo romanista: difficile ripartire, impossibile dimenticare, il primo passo verso la luce in fondo al tunnel è il cambio in panchina, con Sven Goran Eriksson chiamato a prendere il posto di Liedholm (lo svedese è il direttore tecnico, mentre l'allenatore ufficiale è Clagluna). L'anno dopo la delusione di coppa vede la Roma centrare un settimo posto in campionato, mentre in Coppa delle Coppe l'addio è anticipato dopo la sconfitta contro il Bayern Monaco: il secondo anno, con l'ex allenatore del Benfica saldamente al comando della squadra, arriva la sesta Coppa Italia ma i tifosi romanisti devono metabolizzare un'altra cocente delusione, con uno scudetto gettato al vento alla penultima giornata. Roma-Lecce termina 2-3 per i salentini, una sconfitta che getta nello sconforto tutto l'ambiente: il giorno dopo si leggono titoli impietosi, da “Suicidio Roma” ad “Harakiri Roma”, giusto per sottolineare l'imponderabilità di un passo falso contro una squadra già retrocessa. “Roma-Lecce? Siamo arrivati a quella gara senza più energie, eravamo scoppiati” ammetterà “il Principe” Giannini qualche tempo dopo, ma la sensazione comune è che la squadra giallorossa sia arrivata alla fine di un ciclo e, percezione ancora più dura, che l'epoca d'oro della Roma si stia chiudendo mestamente. L'avvicinarsi agli anni '90 certifica il declino tecnico e politico della società: cambi continui di allenatore (si rivede Liedholm, si “affacciano” Spinosi e Sormani) ed una rosa votata all'austerity, mentre in Italia il posto dei giallorossi nella sfida a distanza con la Juventus viene preso dal Milan degli olandesi e dal Napoli di Maradona. Il terzo posto del 1988/89 non illude troppo i tifosi, la stanchezza di Viola ed una situazione economica tutt'altro che florida, sono i sintomi di un futuro che non promette nulla di buono. Il moto d'orgoglio nel campionato 90/91 (aperto da quello che passerà alla storia come “lo scandalo Lipopil” che vede coinvolti Angelo Peruzzi e Andrea Carnevale in un episodio di doping che costerà ai calciatori un anno di squalifica), quando i giallorossi si aggiudicano la settima Coppa Italia (battuta la Sampdoria) e si conquistano la finale di Coppa Uefa: il ricambio generazionale non nasconde il timore di un popolo cresciuto con la paura di vedersi sfuggire di mano l'obiettivo nel momento decisivo, la doppia sfida in finale con l'Inter regala il brivido finale in un decennio in cui si è raccolto molto meno di quanto si meritasse. A San Siro finisce 2-0 per l'Inter, il palcoscenico dell'Olimpico (rinnovato in occasione dei Mondiali e tornato ad essere la “casa” della Roma dopo l'anno vissuto a stretto contatto con il pubblico allo Stadio Flaminio) vestito a festa è teatro dell'ennesima beffa: 1-0 per la Roma, non basta l'orgoglio di Giannini e compagni per chiudere i conti con un destino che da troppo tempo si prende gioco dei colori giallorossi. È proprio il fato a strappare via Dino Viola all'amore del proprio popolo: in pochi mesi un male incurabile lo porta via, ai tifosi ed alla squadra non resta che rendergli omaggio con un mazzo di fiori deposto in Tribuna d'Onore, un gesto accompagnato dalle lacrime di Giannini, Nela e dell'Olimpico intero nel gennaio del 1991. Al dolore seguono i dubbi, con donna Flora Viola alla ricerca silenziosa di un motivo per portare avanti la società: lo farà per tre mesi (la prima donna alla presidenza di una società di Serie A), prima di lasciare le redini a Giuseppe Ciarrapico, il “re delle acque minerali”. L'esordio da presidente è un gesto di semplice delicatezza: la Coppa Italia passata a Flora Viola al momento della premiazione, un'immagine che chiude definitivamente l'epoca dell'ingengere e della “magica” Roma degli anni precedenti.

LA ROMA DA CIARRAPICO A SENSI

Il “nuovo” corso romanista riparte all'indomani della sconfitta di Coppa Uefa: il 23 maggio 1991 dà l'addio al calcio Bruno Conti, uno dei simboli di una Roma che sta piano piano scomparendo e che si appresta a vivere gli anni '90 tra scetticismo e grandi interrogativi. L'Olimpico tributa un applauso da 80 mila persone per uno dei calciatori più rappresentativi della storia, l'ennesima dimostrazione che il popolo giallorosso, nonostante tutto, ama e non dimentica chi porta per sempre nel cuore. L'era Ciarrapico si apre con la conferma di Ottavio Bianchi, allenatore di ferro mai troppo amato dalla tifoseria, ed una campagna acquisti di scarso rilievo: il top degli arrivi è rappresentato da Thomas Hassler, tedesco ceduto dalla Juventus in cambio del cartellino di Peruzzi, il campionato vede comunque la Roma centrare il quinto posto, utile per un piazzamento Uefa. Il cambio in panchina tra Ottavio Bianchi e Vujadin Boskov apre la seconda stagione di Ciarrapico: la speranza è quella di ricreare la magia della Sampdoria che, sotto la guida dello “zio Vuja”, era riuscita ad impressionare in Italia ed in Europa, ma la campagna acquisti estiva non mantiene le promesse di solidità sbandierate dal nuovo corso. Un giovanissimo Mihajlovic ed il campione argentino Caniggia non lasciano il segno e la Roma troverà scarsa considerazione in una stagione anonima (decimo posto) la cui sintesi è ben dipinta da un titolo che il quotidiano «La Repubblica» dedicò all'epoca: “È una Roma operaia, piccola come pollicino” Alle vicende sportive si intrecciano quelle societarie, con Ciarrapico al centro di cronache giudiziarie di ogni tipo: dal 9 novembre del 1993 la Roma ha un nuovo, unico, padrone, quel Franco Sensi che, in tandem con Pietro Mezzaroma, aveva rilevato cinque mesi prima le macerie di una società ad un passo dalla bancarotta. Sessanta miliardi più venti di fideiussione alla Lega per rilevare al cento per cento la Roma, un investimento che Sensi celebrerà con un piano volto a rifondare in toto il modo di vivere, pensare e lavorare a Trigoria: Prima di tutto non ci dovranno più essere politici nella Roma. Quello che dobbiamo fare adesso è riequilibrare la gestione della società, ci sono troppe cose che non vanno, a cominciare dalle troppe persone che, in questi giorni, girano per Trigoria.” L'intervista rilasciata a «La Repubblica» a poche ore dall'insediamento come numero uno della società, chiarisce bene le prime mosse per ricostruire una Roma di livello: “La società deve costruirsi un'immagine da sola, la nostra sarà una gestione trasparente. A Trigoria entrerà solamente chi ci deve lavorare, non voglio viavai continui. Moggi? Era il consigliere personale di Ciarrapico, se dimostrerà di essere anche un dirigente di qualità, potrà restare.” Il futuro, insomma, dedicato ad una causa che, da quel momento in poi, farà della Roma il centro assoluto della vita: c'è la voglia di riprendere un discorso terminato molti anni prima (in passato Franco Sensi aveva fatto parte dell'organigramma societario della Roma, un rapporto interrotto per contrasti con l'ex presidente Evangelisti, reo secondo Sensi di “aver portato la politica nella Roma”), ed il cuore comanda Carlo Mazzone per ricominciare a respirare un'aria di vera romanità. Carletto “er magara”, Giuseppe Giannini e la stella di Francesco Totti: il trittico dal dna giallorosso rappresenta il passato, il presente ed il futuro di un mondo che vuole ritornare protagonista, una strada intrapresa con piccoli passi e la consapevolezza di dover riconquistare la fiducia di tantissimi innamorati. Il primo anno è duro, l'onere del “profeta in patria” scopre tutti i limiti di un tecnico da sempre impegnato a lottare per posizioni non di altissimo livello: la Roma arriva settima e tutti ricordano ancora il gol-salvezza di Giannini a Foggia, un'iniezione di entusiasmo che allontanerà i giallorossi dalla parte bassa della classifica, innescando una rincorsa vana ai posti europei. Anche il secondo anno di Mazzone si apre con le belle speranze di un “rinascimento romanista”: alla punta di diamante Balbo, acquistato l'anno precedente, viene affiancato Daniel Fonseca, funambolo uruguaiano che completa un attacco di tutto rispetto. Il quinto posto finale sarà il frutto di una stagione altalenante, in cui si ricorda soprattutto la vittoria con standing ovation personalizzata nel derby: Giannini e Mazzone portati in trionfo sotto la Sud, una rivincita personale che, soprattutto per il capitano, cancellerà le amarezze per il rigore sbagliato l'anno prima nella stracittadina (“chi sbaglia un rigore al derby non può far parte della Roma di domani” le parole a caldo di Sensi che aprirono una frattura destinata a chiudersi con l'addio di Giannini alla fine del 1996).

LA ROMA E LA STRADA VERSO IL TERZO SCUDETTO

“Roma, seguimi e vedrai”, così titolava a tutta pagina «La Gazzetta dello Sport» dell'8/7/1996: nella Capitale si respira aria nuova, di taglio internazionale, una scelta che per Franco Sensi è coincisa con l'allontanamento di Mazzone e della polvere di una Roma a suo dire “troppo provinciale”. Il fascino della Coppa Intercontinentale, vinta poco tempo prima con il Velez Sarsfield, è il biglietto da visita perfetto per l'argentino dai modi diretti: l'accoglienza è piuttosto timida, con i tifosi che si chiedono cosa ci sarà di concreto dietro alle parole di fuoco dell'allenatore. Conti alla mano, l'annata è un vero disastro: a poche giornate dalla fine Nils Liedholm ed Ezio Sella penseranno a far navigare la squadra verso un tredicesimo posto da incubo, di Carlos Bianchi rimarranno impresse solamente le scelte (il “pupillo” Trotta in difesa ed il “tutti in attacco” come strategia a partita in corso) e l'abbaglio (anche se, in tempi recenti, il sudamericano ha nettamente smentito) sulle qualità di Francesco Totti, a suo giudizio “un giocatore normale”da poter mandare via in prestito. C'è un altro domani da pianificare, con la società impegnata in battaglie anche fuori dal campo: sono gli anni in cui matura la lotta contro la Lega ed i poteri forti, una questione di principio che si trasformerà in vera e propria guerra quando Franco Sensi deciderà di affidare le redini della squadra a Zdenek Zeman, ex allenatore della Lazio e garanzia di un calcio propositivo ed offensivo. I tifosi romanisti scoprono una filosofia conosciuta solamente nell'altra sponda del tevere - “gli schemi contano più degli uomini” - mentre i calciatori fanno i conti con carichi di lavoro e sedute di allenamento che loro stessi definiscono “massacranti”: a Kapfenberg si suda, ci sono da dare risposte importanti sul campo, da Trigoria continuano ad alzarsi le voci mai sopite di un fastidio crescente nei confronti del sistema calcistico italiano, quella che poco tempo dopo sarà definita come una vera e propria “associazione a delinquere”.Il rettangolo verde fornisce risposte confortanti, la squadra coglie un quarto posto e tanti applausi che aprono uno squarcio di luce nelle nebulose ambizioni dei tifosi: si rivedono il bel gioco ed i gol, ci sono le basi per far bene nel futuro più immediato. Il 1998 è l'anno del “calcio nelle farmacie”, con il polverone del doping alzato da Zeman e mal digerito dagli ambienti juventini: da Ferrara a Vialli, passando per Del Piero e Lippi, l'Italia bianconera stringe il cappio intorno al boemo, reo di aver “detto cose di una gravità assurda, qualcosa di incredibile che non sta né in cielo né in terra”. Tra “non ricordo” e “non so”, il processo riguardante la società bianconera ha visto la chiusura nel 2007, quando solo la prescrizione salvò la Juventus: nel frattempo l'ambiente romanista cominciò a capire quanto fosse insostenibile tenere testa a due fronti di attacco, da una parte la Lega e le squadre del nord, dall'altra la pesante eredità lasciata dalle parole di Zeman che, nel novembre 1998, poco dopo il successo per 2-0 sulla compagine torinese, confessò di “essere coperto di insulti ogni giorno, se dovessi riportare ad un avvocato le parole che Ferrara mi ha detto per tutta la partita, credo che ci siano gli estremi per diverse querele...” Lasciando indietro scrupoli e sentimenti - “mi dispiace molto per l'uomo e per l'allenatore, ma era arrivato il momento di cambiare” - Franco Sensi nel 1999 affida la squadra a Fabio Capello: garanzia di pragmatismo e sostanza, l'ex allenatore del Milan avrebbe dovuto rappresentare la figura di riferimento della Roma nell'Olimpo delle grandi squadre. “Capello? Completerà il percorso iniziato da Zeman ed in più è rispettato dal Palazzo”, l'ammissione carica di rabbia del presidente coincide con la scelta di un mister che “ha la fama che lo precede, possiede la mentalità vincente e farà fare un salto di qualità a questo gruppo”; l'allenatore, dal canto suo, abbozzando un sorriso nel giorno della presentazione, svela un retroscena gustoso: “Ho avuto dei contatti con Inter e Lazio ma ho scelto subito di venire qui. Mi sento un romanista tornato a casa, da qui spiccai il volo e da qui voglio ripartire per smentire chi dice che a queste latitutidini non si può vincere.” Vincere, un sostantivo che ritorna a far parte del vocabolario romanista: il tecnico di Pieris ci metterà un anno prima di trovare la quadratura del cerchio e regalare al popolo giallorosso il sogno del terzo scudetto.

LA ROMA E LA GIOIA DEL TERZO SCUDETTO

“La musica è diversa, lo sento” la previsione del presidente all'indomani dei sorteggi del primo campionato capelliano, era la cartina al tornasole di un entusiasmo tutto nuovo: campagna acquisti con il fiore all'occhiello di Vincenzo Montella, bomber vero che integrerà il tridente del futuro scudetto, mentre a gennaio arriverà in giallorosso il giapponese Hidetoshi Nakata. La stagione si chiuderà con il sesto posto (in Uefa si arriverà ai quarti di finale, eliminata dal Leeds) e la sensazione di avere tra le mani l'ossatura di una squadra di buon livello, da completare con innesti di valore che possano portarla a combattere con le altre “sei sorelle”. Ai blocchi di partenza del campionato successivo sono in molti a scommettere sulla Roma: Capello stesso, solitamente molto composto e poco incline a facili proclami, alla chiusura del mercato estivo si lascerà andare ad una previsione che alimenta non poco le aspettative dei tifosi. “È un piacere allenare questa squadra: è costruita per vincere e guidarla fino al traguardo sarà bellissimo. Non ho dubbi, puntate sulla Roma.” Gli arrivi colmano definitivamente il gap con le altre compagini italiane: Gabriel Batistuta (70 miliardi), Emerson (25 miliardi), Walter Samuel (35 miliardi) e Jonathan Zebina (10 miliardi più Lucenti per la comproprietà) fanno volare la fantasia dei tifosi che rispondono con una campagna abbonamenti sontuosa, sottoscrivendo 46.000 tessere, un record battuto solamente nelle due stagioni successive, quando verranno raggiunte le 47.000 unità. Il propellente per una campagna acquisti da oltre cento miliardi deriva da due fattori fondamentali: il primo, più tecnico, è dato dall'entrata in borsa della società (“con la capitalizzazione delle 45 milioni di azioni richieste, la Roma ha un valore di 554 miliardi” si legge su «Il Sole 24 Ore» del 23/5/2000), il secondo dalla necessità di dare una risposta forte all'ambiente dopo la vittoria dello scudetto da parte della Lazio. Fondi, ambizioni e squadra da vertice, sulla carta c'è davvero tutto per fare bene. L'inizio, per la verità, non è dei più confortanti: la prima ufficiale è la sfida di Coppa Italia con l'Atalanta, il match di Bergamo però (dopo l'1-1 dell'andata) finisce 4-2 per gli orobici, scatenando l'ira dei tifosi al rientro della squadra a Trigoria per gli allenamenti. “Inferno a Trigoria” titolerà il «Corriere dello Sport» del 23/9/2000, descrivendo il clima con cui hanno dovuto fare i conti i calciatori al rientro dalla trasferta di coppa; in pochi si salvano, la contestazione copre gruppo e società, lasciando parole solamente per Totti che, risponendo alle dichiarazioni di Capello nell'immediato dopo partita (“io preparo le partite nel migliore dei modi. Mi rammarico vedere partite come quelle di questa sera, dove la squadra non fa nulla di quello che studiamo in settimana”), cerca di riportare la calma in un momento cruciale della stagione: “La colpa è di tutti, non solo di noi calciatori. Adesso quello che ci serve è che la squadra venga lasciata tranquilla. Vedrete che sapremo rifarci nel corso dell'anno.” Toccato il fondo, c'era solo da ripartire ed il campionato rappresentava la rampa di lancio giusta per un gruppo legato dalla comune voglia di fare bene: con il Bologna in casa inizia una cavalcata che vivrà di tappe fondamentali (la vittoria in rimonta a Parma, il pareggio in casa della Juventus, la vittoria nel derby con autogol di Paolo Negro, le prove di forza in trasferte difficili come quelle di Brescia, Lecce e Verona) e di esaltanti momenti di calcio. Le immagini, più vivide di quelle de ragazzi dell'82/83, rimandano i colori di eroi dalle storie personali più eterogenee: le lacrime di Batistuta dopo il gol decisivo alla “sua” Fiorentina, la corsa senza fine di Tommasi, il rapporto sul filo del rasoio tra Montella e Capello, Totti che cerca di calmare lo stadio per difendere Antonioli dopo gli errori contro il Perugia. È lo scudetto dei record, 75 punti, mai fatto meglio in Italia, frutto di una prova di forza collettiva: “Nel 2001 eravamo tutto meno che un gruppo unito. Avevamo solamente tanta voglia di vincere” l'ammissione anacronistica di molti protagonisti dell'epoca, a riprova di un disegno comune che prevaricava l'ego di ogni singolo giocatore. Tra scongiuri e incertezza, la penultima giornata aveva chiamato i tifosi della Roma all'ennesima “prova maxischermo”, con una città intera divisa tra San Giovanni ed il San Paolo: in terra campana c'è la gabbia (un esperimento, l'ennesimo con i tifosi della Roma al centro della scena) a contenere i supporters giallorossi, nella capitale migliaia di cuori sono pronti a festeggiare il terzo titolo. Il resto è cronaca, con Pecchia ed una squadra retrocessa che rimandano il giubilo alla domenica successiva: “La Roma merita lo scudetto, se contro il Parma giocheremo calmi non avremmo nessun problema” le dichiarazioni di Capello alla vigilia della sfida decisiva contro gli emiliani, l'apice di una corsa che nemmeno le discussioni con Montella (“cose di campo, capitano”) riuscirà a far vacillare. Il 17/6/2001 Roma è una caldera pronta ad esplodere: l'Olimpico è pieno in ogni ordine di posto, la tensione in città si percepisce nell'aria, anche il presidente Sensi prova a raccontare in poche parole le emozioni che sono raccolte in novanta minuti di gara. “All' inizio della settimana ho detto: ' ' Se non vinciamo, temo incidenti gravi' ' . Un gesto di responsabilità, credevo. Qualcuno l' ha preso addirittura come una minaccia. La Roma considera lo scudetto un fatto dovuto, è stato il commento. E invece qui di dovuto non c' è proprio niente, purtroppo. Anche se...” Nessun dubbio, nemmeno di fronte al gol di Marco Di Vaio, passato praticamente inosservato di fronte alle prodezze di Totti, Montella e Batistuta: la festa comincia all'Olimpico, si sposta in città e dura tre interi mesi, unita dalla gioia di aver “scucito dal petto” il tricolore alla Lazio ed alla speranza di aver riaperto un ciclo unico per la storia romanista.

LA ROMA DOPO IL TERZO SCUDETTO

“È stato il mio successo più bello, qualcosa di indescrivibile” le parole di Fabio Capello nella pancia dell'Olimpico denotano felicità, soddisfazione ed un pizzico di tensione: storia di un'invasione di campo e della paura di non arrivare al cuore di un percorso vincente. Il sapore del successo pervade la capitale per moltissimo tempo, a margine di una squadra fortissima c'è la sensazione che si possa davvero aprire un ciclo dai colori giallorossi, fatto di serate indimenticabili e di giornate da ricordare. L'estate della sbornia per il tricolore scivola via tra feste di piazza (un milione di persone al Circo Massimo il 24 giugno per l'abbraccio collettivo sullo sfondo delle note di Antonello Venditti) e voci di mercato (a Trigoria approderanno due promesse del calcio italiano, il portiere Ivan Pellizzoli ed il fantasista Antonio Cassano), giusto il tempo per immergersi nel clima da Supercoppa italiana, primo trofeo della nuova stagione da portare a casa. Si gioca all'Olimpico il 19/8/2001, di fronte c'è la Fiorentina di Roberto Mancini, un' avversaria che i ragazzi di Capello regolano per 3-1: a tenere banco sono le questioni interne, con glo spogliatoio in tumulto per situazioni relative a premi scudetto non versati, ci penserà la Champions League a ripianare le pendenze economiche tra dirigenza e squadra. È proprio il calcio dei grandi a rappresentare la grande novità: la Roma ci riprova a distanza di quasi venti anni, un girone che la vedrà insieme al Real Madrid (la gara di andata si svolgerà l'11/9/2001 in mezzo a tantissime polemiche dopo una giornata passata ad osservare i fatti delle Torri Gemelle), Anderlecht e Lokomotiv Mosca. La formula all'epoca prevedeve un secondo girone eliminatorio, dove la Roma non riuscì a qualificarsi nonostante la bella vittoria contro il Barcellona (3-0 in casa, per il resto furono pareggi contro Liverpool e Galtasaray). Il campionato vide la compagine di Capello incappare in un secondo posto che in molti ancora non si spiegano: a vittorie fantastiche come quelle contro la Lazio (1-5 con quattro gol di Montella) ed in casa della Juventus, vennero accostati risultati deludenti come il “famoso” pareggio per 2-2 a Venezia, gara che in tanti considerano come il punto di non ritorno nella lotta per il titolo. Nel 2002/2003 i giallorossi girano l'Europa riuscendo, a tratti, ad imporre una superiorità di collettivo e di tecnica: a farne le spese sono il Real Madrid (0-1 al Bernabeu con gol di Totti, una serata che il capitano definità “tra le più belle della mia carriera”) ed il Valencia (0-3 al Mestalla contro un squadra all'epoca molto forte) soddisfazioni che non verranno trasferite nel campionato nazionale, dove l'ottavo posto finale sarà lo specchio di una stagione quantomeno tribolata. Da registrare l'esordio i prima squadra di Daniele De Rossi:Ma è il ragazzino che ha segnato?” le immagini del presidente Sensi in tribuna, incredulo di fronte al gol del giovanissimo centrocampista contro il Torino, segnano l'inizio di una nuova epoca nel segno della romanità. Sono gli anni in cui matura la cultura parallela dell'attacco “totale” alla Roma, dove la squadra giallorossa verrà messa al centro di un disegno volto a danneggiarla sul rettangolo di gioco e, di riflesso, dal punto di vista societario: “La Roma è stata danneggiata” le parole dei designatori Bergamo e Pairetto riportate dal «Corriere della Sera» del 5/7/2003 rispecchiano totalmente il trattamento riservato ad una squadra sulla carta fortissima che, per i motivi più disparati, non riuscirà a raccogliere quanto dovuto.

LA ROMA DA CAPELLO A SPALLETTI

L'ultimo anno di Fabio Capello sulla panchina giallorossa è il 2003/2004: è la stagione del derby sospeso per ordine pubblico, delle roboante vittoria sulla Juventus (4-1 ed il gesto - “4 gol, a casa”- di Totti a Tudor) del tacco di Amantino nella stracittadina di andata e del trionfo in casa sull'Inter (4-1 spettacolare). La corsa è con il Milan, pur laureandosi campione d'inverno la Roma non riuscirà ad arrivare fino in fondo, perdendo punti incredibili contro le squadre “piccole”. Tra maggio e giugno 2004 si consuma un divorzio che fa ancora parlare, Fabio Capello fugge nella notte da Roma (la famosa Mazda con cui avrebbe lasciato la capitale è entrata nell'immaginario collettivo della leggenda metropolitana) per poi accasarsi alla Juventus: da Marbella il tecnico spiegherà che il suo addio “è convenuto a tutti. Per la Roma ero diventato un peso tecnico ed economico. Era chiaro da tempo che le risorse economiche della società non avrebbero potuto garantire un futuro ad alto livello alla squadra.” Nell'anonimato di fine campionato, l'allenatore aveva lasciato i giallorossi ad un destino tutto da decifrare, preferendo le avanches di Moggi e Giraudo, definiti dallo stesso Capello “dei professionisti esemplari, con i quali ho trovato l'intesa in meno di dieci ore.”

“Ave o Cesare, benvenuto nell'impero.” L'accoglienza del popolo romanista a Cesare Prandelli è carica di fiducia e speranze: in un giorno che Franco Sensi definirà “bellissimo”, l'ex tecnico di Verona e Parma prende possesso della vita giallorossa del dopo Fabio Capello. “Sto vivendo attimi di pura emozione, non ho avuto nemmeno il tempo di realizzare”, l'impatto è di quelli migliori, con una piazza attenta ad ogni movimento del nuovo tecnico e pronta a dare massimo credito alle ambizioni del giovane condottiero: è il destino che si tramuta in beffa quando motivi familiari costringono Prandelli ad abbandonare un'avventura appena nata, un vuoto che costringerà la società a correre ai ripari nel corso di un'estate tutt'altro che tranquilla (basta ricordare il caso del “certificato medico” di Emerson, con tanto di diagnosi di una depressione e la querelle con l'Auxerre per l'acquisto di Mexes, una situazione che porterà alla sospensione del mercato giallorosso nella sessione invernale del 2006), cercando nella figura di Rudi Voeller la risposta perfetta a pochi istanti dall'inizio della stagione. Dura pochissimo, appena un mese, la seconda vita del tedesco volante: la pressione della piazza ed i risultati scadenti della squadra gli fanno capire di non essere portato per sedere in panchina, meglio la tranquillità di posti come Leverkusen. Arriva quindi il momento di Luigi Del Neri, artefice del miracolo Chievo ma uomo sbagliato nel momento sbagliato: troppo lontana la sua personalità dal modo di vivere, pensare e sostenere del mondo romanista, una parentesi che lo vedrà alzare bandiera bianca dopo la disfatta di Cagliari, marzo 2005. A traghettare la squadra ci penseranno Ezio Sella e Bruno Conti, chiamati a tenere in vita un ambiente nel pieno della depressione sportiva più acuta: saranno il gol di Cassano a Bergamo nella penultima giornata ed un pareggio a reti bianche nel derby (partita in cui le due squadre incassarono fischi senza soluzione di continuità) a far tirare un sospiro di sollievo ai tifosi, desiderosi di lasciarsi alle spalle un anno disastroso. Si prova a ripartire, faticosamente. Il primo passo è il rinnovo di Francesco Totti - “è il giorno più bello della mia vita” - contratto fino al 2010 ed una vita di Roma ancora tutta da scrivere, il secondo è la scelta di Luciano Spalletti (un'alternativa forte era quella di Zdenek Zeman, un ritorno che non si consumò con il boemo “deluso dal trattamento dei Sensi. Mi hanno scaricato”) come colpo di spugna per dimenticare il recente passato. “Siamo in buone mani” dirà Franco Sensi alla fine di una telenovela con l'Udinese per assicurarsi il tecnico di Certaldo: dimissioni dal club friulano e immersione totale nella nuova avventura capitolina, il salto di qualità sognato sin dai tempi dell'Empoli e della Sampdoria. Da subito si capisce come Spalletti intenda costruire un rapporto sincero con i propri calciatori: “Dobbiamo ripartire dalla normalità. Si devono restaurare valori importanti, cominciando dallo spogliatoio” le prime parole da allenatore della Roma, catapultato in una realtà desiderosa di ritrovare un'anima vincente e calciatori votati alla causa (non a caso nella sessione invernale verrà ceduto Antonio Cassano al Real Madrid, individuato dal tecnico e dalla società come uno dei maggiori “problemi” nel gruppo). Nel corso dell'anno 2005/2006 la cura Spalletti porterà la Roma a praticare un calcio propositivo ed improntato sulla coralità, ne sono testimoni le 11 vittorie consecutive e gli attestati di stima raccolti in tutta la penisola: alla fine della stagione la classifica verrà stravolta dai fatti di Calciopoli, il quinto posto giallorosso si tramuterà in un secondo posto, data l'implicazione nei processi di club come la Juventus, il Milan, la Lazio e la Fiorentina. Si ritorna a pensare in ottica Champions, passata la preoccupazione per le condizioni di Francesco Totti (il capitano recupererà in modo prodigioso da un infortunio al perone, riuscendo a vincere il Mondiale) la programmazione per il nuovo anno europeo regala una Roma scintillante, impegnata a lottare su tre fronti. La sfida a due con l'Inter sarà il leit-motiv di tutta la stagione e di quelle seguenti: si parte con la Supercoppa persa a Milano (gol di Figo), passando per un campionato vissuto tra lotte di vertice ed errori arbitrali, fino alla conquista della Coppa Italia nella doppia sfida contro i nerazzurri. In Champions la doppia faccia della Roma si mostrerà nella fantastica vittoria contro il Lione (2-0 in Francia) e nella pesantissima sconfitta rimediata a Manchester (7-1) per mano dello United. Ciliegina sulla torta sarà la Scarpa d'Oro vinta da Francesco Totti per i 26 gol messi a segno in stagione (come non ricordare la splendida rete contro la Sampdoria), mostrata al pubblico romanista durante la festa per gli 80 anni della società, il 26/7/2007 in una bellissima serata all'Olimpico. La nuova annata (2007/2008) si apre con il rigore di De Rossi a Milano: è lui a sancire la sconfitta dell'Inter nella finale di Supercoppa italiana, permettendo ai giallorossi di alzare il primo trofeo della stagione. L'avventura in Champions League si ferma ai quarti di finale, c'è ancora il Manchester ad intterrompere i sogni del popolo romanista: doppia sconfitta che cancella le due vittorie contro il Real Madrid nel turno precedente. Ci sarà anche la Coppa Italia da festeggiare, rinnovando la sfida con l'Inter, protagonista di una corsa anche in campionato: campioni per più di un'ora, mentre Catania mostra il lato peggiore (tifosi in massa a bordo campo e minacce più o meno velate a dirigenti e calciatori romanisti), a Parma va in scena lo show di Ibrahimovic, una doppietta che permette all'Inter di portare a casa il tricolore. Alla rincorsa sul campo si affiancano le voci sul futuro societario: è il periodo in cui il nome di George Soros è costantemente avvicinato alla Roma, per certi versi sembra di rivivere la situazione di due anni prima in cui si parlava dei russi della Nafta Moskva per rilevare il pacchetto azionario della società capitolina. Ai rumors non seguono passi concreti e nell'agosto 2008 Rosella Sensi diventa a tutti gli effetti il nuovo presidente romanista: succede al padre Franco, venuto a mancare il 17 agosto dopo una lunga malattia (ai funerali presenzieranno più di 30 mila persone, un chiaro segnale dell'affetto verso il presidente che, pur non essendo più in prima linea, aveva regalato sogni e titoli). Non sembra esserci più spazio per le magie del gruppo spallettiano, i giallorossi rimandano la sensazione di aver dato tutto nel corso delle stagioni precedenti ed il sesto posto nel campionato 2008/2009 apre all'incertezza per il futuro più immediato: che sia la fine di un ciclo si capisce all'ultimo rigore contro l'Arsenal, quando la Roma esce agli ottavi di finale dopo aver sfiorato l'impresa, una nottata che chiude ufficiosamente l'era Spalletti.

LA ROMA E L'ADDIO DEI SENSI

“Inizia l'era Ranieri”, così titolava il «Corriere della Sera» il 2/9/2009, all'indomani del terremoto che colpisce la panchina romanista: Luciano Spalletti consegna le proprie dimissioni - “non riusciva più a farsi capire da noi, qualche problema con il gruppo c'era. Le sue dimissioni erano inevitabili”, la chiosa di Totti – e Claudio Ranieri prende possesso di Trigoria. “Questa è casa mia”, da San Saba all'Olimpico, un passo che l'allenatore aveva sempre sognato e che, per ammissione della Sensi, “Ranieri alla Roma rappresenta la quadratura di un cerchio, lo avrebbe voluto anche mio padre.” L'anima romana torna ad essere una e trina (ad Aquilani, ceduto al Liverpool, si sostituisce proprio l'allenatore) ed i risultati comprovano un cambio di rotta sostanziale: ai silenzi prolungati di Spalletti si sostituiscono i fischi di Ranieri, la squadra sceglie subito la risposta giusta trovando cinque risultati utili consecutivi. Dopo un girone di andata che si potrebbe definire di “assestamento” il gruppo guidato da Ranieri si prepara per una seconda parte di stagione ad altissima intensità: ad aiutare arriva anche Luca Toni ed i segnali sono da subito confortanti (due gol all'apertura del ritorno nella gara interna contro il Genoa), con i giallorossi vittoriosi contro la Juventus (colpo di testa di Riise a pochi istanti dalla fine per il 2-1 romanista) contro il Siena (espressione chiara è il gol partita di Okaka su assist di Adrian Pit...) ed a Firenze. Si parla nuovamente di vertice e le tappe successive del campionato non fanno che aumentare l'autostima del gruppo e dell'ambiente: vittoria nella sfida contro l'Inter (2-1 in casa e “palo propiziatorio” di Milito ad un soffio dalla fine) e, mentre i nerazzurri arrancano, la Roma si conquista il primo posto (l'Europa League è un lontano ricordo dopo l'eliminazione per mano del Panathinaikos) grazie alla vittoria contro l'Atalanta ed al successo nel derby (doppietta di Mirko Vucinic in una partita “coraggio”, dove le scelte di Ranieri – Totti e De Rossi fuori alla fine del primo tempo – risultano decisive). Come nelle peggiori storie in salsa romanista, il buio arriva quando meno te lo aspetti: la gara interna contro la Sampdoria (2-1 per i doriani) è il punto di non ritorno di un campionato che si concluderà con l'Inter campione e le lacrime giallorosse davanti ai 18.000 di Verona. “Chi tifa Roma non perde mai” o “to be continued”, riparte da questi striscioni la seconda avventura di Ranieri sulla panchina giallorossa: un gruppo “spremuto” riparte senza lo convinzione dei giorni migliori, lasciando a Milano la Supercoppa italiana (la Roma partecipa come finalista dell'anno precedente) ed approcciando al campionato senza troppa grinta (pareggio a reti bianche contro il Cesena in casa e sconfitta 5-1 a Cagliari). La posizione di Ranieri comincia subito a “scricchiolare” e non basteranno la vittoria nel derby di andata ed alcune buone prestazioni per mantenere salda la sua posizione alla guida della squadra: dopo il 4-3 inflitto in rimonta dal Genoa (la Roma era andata a riposto sul 3-0) l'addio è inevitabile, con le parole di Ranieri che dipingono perfettamente il momento vissuto nello spogliatoio. “Mi sono dimesso per amore della Roma e di tutta Roma. Qual è stato il problema? Non c'è stato lo spirito battagliero, in molti pensavano ai propri interessi e non a quelli della squadra. Totti? È più solo di quanto si possa pensare...” Chiudere in modo dignitoso la stagione, per questo la Sensi e Montali (direttore generale) pensano subito ad un nome che sia la sintesi perfetta tra legame storico e visione futura: Vincenzo Montella prende in mano la squadra a 13 giornate dalla fine e la rincorsa ad un posto Champions si infrange solamente di fronte a battute d'arresto come quella interna contro il Palermo o quella di Catania. Il gruppo e l'ambiente sembrano aver trovato l'allenatore giusto su cui ricostruire le basi per un futuro nel segno della normalità ma saranno le vicende societarie a stravolgere di nuovo l'ordine delle cose. Roma-Sampdoria, ultima di campionato, è quella dell'addio alla famiglia Sensi: l'abbraccio di Rosella a Totti è quello di una sorella con un fratello, il “figlio maschio” di casa che con un gesto chiude un'epoca. A giugno finisce tutto ufficialmente, con Unicredit prima e gli americani poi, pronti a rilevare il destino della Roma: “Il consiglio di amministrazione ha formulato i propri ringraziamenti alla dottoressa Sensi ed agli altri consiglieri dimissionari per l'attività svolta nel corso dei molti anni di presenza alla guida della società, durante i quali la A.S. Roma è rimasta costantemente ai vertici del calcio nazionale, con una significativa presenza internazionale.”È il 28 giugno 2011.

LA ROMA E LA GESTIONE AMERICANA

“Forza Roma”. Due parole che abbracciano il rito, la tradizione e la circostanza: Thomas Di Bendetto è la figura di rappresentanza della cordata scelta da Unicredit per rilevare il pacchetto di maggioranza della Roma, una trattativa portata avanti durante tutto l'inverno del 2011 e destinata a cambiare definitivamente il volto della società. A Boston va in scena un nuovo atto nella storia della Roma, dopo le mosse di Unicredit (la banca, tramite l'advisor Rotschild, aveva aperto la ricerca di compratori dopo l'accordo con la famiglia Sensi per l'azzeramento del debito da 325 milioni di Italpetroli), c'è la firma sul contratto preliminare tra l'istituto di credito ed i compratori statunitensi: ci vorrà ancora qualche mese per il “closing” vero e proprio (18 agosto 2011) ma tutto comincia a ruotare intorno ad un nuovo mondo, ad una concezione riveduta e corretta del modo di intendere il calcio e tutto ciò che ad esso è legato. Le prime mosse coincidono con un riassetto dirigenziale: l'uomo mercato è Walter Sabatini, direttore sportivo scelto per plasmare il volto giovane della squadra, il direttore generale è Franco Baldini, cavallo di ritorno dal fascino internazionale. La scelta del tecnico rappresenta il punto di rottura totale con il passato: Luis Enrique? È una mia scelta, cercavo qualcuno di incontaminato, qualcuno che fosse lontano dal calcio italiano. Mi è piaciuta la sua sfrontatezza ed ho apprezzato la sua motivazione” l'ammissione di Baldini in un'intervista a «Repubblica» in cui toccherà tutti gli aspetti di quella che si ripromette di essere una filosofia totalmente rivoluzionaria in seno al mondo romanista. Si parte, tra ipad e allenamenti in cui il pallone la fa da padrone, alla ricerca della perfezione che da sempre caratterizza il Barcellona ed il suo calcio totale: “Sono qui per emozionare” le prime parole dell'iron man spagnolo, catapultato dalla realtà provinciale del Barcellona B alla grandezza della capitale “voglio portare qui tutti ciò che ho imparato al Barcellona. Sogno una squadra ambiziosa.” Il tiki-taka entra nel vocabolario del tifoso giallorosso, ma da subito si capisce che lo spazio per il progetto di calcio rivoluzionario non combacia molto con le insidie del calcio giocato: la prima delusione è con lo Slovan Bratislava, squadra di onesti giocatori che non crede troppo nelle possibilità di far fuori la Roma nei preliminari di Europa League. La realtà riserva la prima beffa alle convinzioni di Luis Enrique: sconfitta fuori e pareggio in casa, un addio macchiato da scelte improponibili (una su tutte: il cambio Totti-Okaka per cercare di cambiare il volto alla gara di ritornno) e da un gioco che latita. La pazienza ed il credito non mancano, la tifoseria della Roma si appresta a lasciarsi alle spalle le delusioni europee per gettarsi anima e corpo sul nuovo campionato: si parte male e si continua peggio, con la squadra che raccoglie figuracce nel corso di tutta la stagione ed un progetto che, a dispetto di tutto, mantiene fascino e credibilità nel cuore di moltissimi supporers. “Mai schiavi del risultato” recita uno striscione che saluta l'idea prima ancora della sostanza: si pensa poco ai verdetti del campo, nonostante il pieno appoggio di squadra (da De Rossi a Totti, passando per quasi tutti i componenti della rosa, nessuno spenderà mai parole negative per Luis Enrique) e società, alla fine emergono tutte le fragilità di un allenatore poco abituato alle pressioni della grande piazza ed ai ritmi di una città travolgente. “Cosa ho fatto per meritarmi questo?” l'interrogativo dell'asturiano dopo il secondo derby perso, un quesito carico di tensione e di semplice avvilimento: di fronte ai primi sintomi di insofferenza del pubblico, anche la stampa comincia a chiudere il cerchio intorno a Luis Enrique, in ogni conferenza stampa vanno in scena tratti drammatici di un rapporto sempre più compromesso. Alla fine le dimissioni sono inevitabili, con lo spagnolo tornato alla quotidianità delle proprie passioni. Lontano da Roma.

LA ROMA DI JAMES PALLOTTA

“So quanto pazzi siano i tifosi della Roma, ma sono preparato: voi non sapete quanto sono pazzo io” la nottata di Boston aveva fatto conoscere un altro pezzo della Roma americana: James Pallotta era rimasto nell'ombra, poche parole prima di lasciare le luci della ribalta a Thomas Di Benedetto e tornare a pianificare la crescita internazionale della società. Nel Cda di metà dicembre 2011 verranno ratificate le dimissioni di Michael Ruane e Richard D'Amore, due elementi della cordata della “prima ora”, mentre entreranno in società Mark Pannes e Luis Klein: è il primo passo per la scalata effettiva di Pallotta, sempre più nel cuore degli affari societari e motore della valorizzazione del marchio romanista, socio forte del gruppo che nel corso del tempo sostituirà Di Benedetto sia nella forma che nella sostanza del ruolo. Passi concreti sono rappresentati dal rinnovo di Daniele De Rossi - “ho bisogno di stare qui, non mi vedo con nessun'altra maglia” - ed i primi accordi con brand internazionali (Disney e Volkswagen), conseguenti alla ratifica della carica di presidente: “Un grandissimo onore, non esiste un club più importante al mondo” le dichiarazioni di Pallotta al termine del Cda estivo che lo incorona presidente, tappa ufficiale di una condizione ormai acquisita da tempo, con Di Benedetto lontano dalle cose romaniste. La pianificazione del futuro non passa anche per il campo: Pallotta lascia ampio spazio alle decisioni di Baldini e Sabatini, delegando la scelta del nuovo tecnico alle intuizioni di una coppia che, sulla carta, rappresenta ancora una garanzia. Il fallimento di Luis Enrique ha scavato un solco profondo nell'animo dei tifosi, arrivati a pezzi nel finale della prima stagione statunitense, per risollevare il morale di tantissimi innamorati, la pensata è di quelle incredibili: Zdenek Zeman sulla panchina della Roma, un usato garantito che possa proseguire con l'idea di calcio offensivo tanto cara alla dirigenza. Il boemo è tornato in pista grazie ad un bellissimo campionato alla guida del Pescara, una vittoria in Serie B frutto dell'applicazione di giovani leoni e di campioni in erba. “Vado alla Roma, è l'ultima chance” il commiato dalla squadra abruzzese prima di riprendere possesso delle stanze di Trigoria: “Vorrei emozionare, divertire e far innamorare la gente” la speranza è quella di riaprire il luna park di “Zemanlandia”, un remake a distanza di oltre dieci anni che vuole celebrare il ritorno nell'Olimpo del grande calcio. Si rivedono i gradoni, le corse nel bosco e le doppie sedute: la Roma fatica, i tifosi si interrogano su come i calciatori assimileranno i metodi di allenamento del tecnico, dubbi che si aprono con l'inizio della nuova stagione. Si parte con il pareggio interno contro il Catania, poi arriva la vittoria a Milano contro l'Inter ed una sconfitta in casa contro il Bologna: l'altalena zemaniana non conosce sosta, la mancanza di continuità caratterizzerà i mesi in cui il boemo proverà ad instillare il proprio credo nel cuore e nell'anima dei calciatori. Non c'è traccia dell'idillio che aveva scandito la prima avventura dell'allenatore con la Roma: diversi calciatori non riescono ad interagire con i modi ed i silenzi di Zeman, pilastri come Daniele De Rossi non troveranno la serenità per instaurare un rapporto saldo e sereno a causa di scelte opinabili e “duelli” verbali a distanza. In sostanza, anche intorno a Zeman il cerchio si chiude in modo preventivo: la sconfitta interna contro il Cagliari, il primo febbraio 2013, decreterà la fine del rapporto tra la Roma ed il boemo, il testamento migliore lo lascerà Totti che parlerà di “una sconfitta per tutti. Tutta la squadra ha fatto il contrario di quello che chiedeva...”

C'è Aurelio Andreazzoli come mister “ad interim”, una scelta “fatta in casa” che ha il solo scopo di accompagnare la Roma alla fine della stagione: nell'ombra sin dai tempi di Spalletti, il tattico toscano si trova al momento sbagliato nel posto sbagliato, alla prima sulla panchina, in casa della Sampdoria, c'è subito da gestire il caso di Osvaldo e del rigore “sottratto” a Totti. Con l'attaccante italo-argentino il feeling è qualcosa di sconosciuto (basta pensare al tweet di fine anno dell'ex Espanyol, in cui taccerà Andreazzoli di “essere della Lazio”), la sensazione generale è che la squadra non sia troppo attenta alle indicazioni di un tecnico destinato ad andarsene alla fine del campionato. La vita parallela della Roma si muove intorno alle indiscrezioni su possibili nuovi soci: febbraio è il mese di Al Qaddumi, sedicente sceicco che, a conti fatti, si rivelerà come un nuovo Fioranelli (tentò una scalata nel 2009 prima di essere smascherato dalla Consob e dalla Gdf), lasciando Pallotta ed Unicredit ad una ricerca costante di nuovi capitali. L'accordo con la Nike, in questo senso, rappresenta un passo avanti nella valorizzazione del merchandising: dieci anni insieme a partire dalla stagione 2014/2015, introiti milionari che aprono la frattura con la Kappa, sponsor tecnico che verrà abbandonato alla fine dell'anno. Mossa a sorpresa sarà il cambio dello stemma (da ASR a Roma 1927), un restyling che non verrà apprezzato molto dalla tifoseria ma che Pallotta giustificherà nell'ottica della “maggiore riconoscibilità nel mondo grazie all'immediatezza evocata dal nome.” Il sesto posto di fine campionato lascia aperti dubbi e interrogativi ma sarà la sconfitta nella finale di Coppa Italia contro la Lazio ad innescare un cambio di rotta definitivo nel progetto della Roma americana.

LA ROMA E LA SCELTA DI RUDI GARCIA

Ed arriviamo all'attualità. “Sai che non sei la prima scelta”, una confessione che, con il senno di poi, rende ancora più grande l'impresa e la motivazione di Rudi Garcia: nel giro dei colloqui estivi, il tecnico francese non partiva in pole, nel calderone dei possibili allenatori della Roma i nomi più gettonati erano quelli di Massimiliano Allegri e di Walter Mazzarri. Tra ripensamenti e rifiuti, l'intervento di James Pallotta si è rivelato decisivo: “Rudi Garcia? È una mia scelta, la prima da quando sono nella Roma.” da subito l'intesa, il presidente sceso in prima linea aveva preso in mano la situazione per dare una svolta all'avventura giallorossa. Lui la mente (centrale sarà la questione stadio: la presentazione dell'impianto, firmato Dan Meis, rappresenta una tappa fondamentale nel processo di crescita della società), Sabatini il braccio: nel corso dei mesi si era perso il carisma di Franco Baldini, dimessosi a giugno per tornare nell'amata Inghilterra, ma si era costruito un meccanismo in cui mancava solamente l'ingranaggio “tecnico”. “Non ho paura di nulla”, il primo impatto con Trigoria è di quelli fragorosi: personalità e voglia di imporsi, dagli sms personalizzati ai calciatori alle parole cariche di ambizione durante il battesimo giallorosso, Rudi Garcia si tramuta presto da oggetto misterioso a fulcro di una rinascita quasi inattesa. Da Riscone agli Stati Uniti, passando per Roma, tutto comincia a girare intorno ai pensieri, le parole e la filosofia dell'ex allenatore del Lille: si parte in campionato ed è subito amore, basta riguardare l'abbraccio collettivo a De Rossi per il gol decisivo a Livorno. “Abbiamo rimesso la chiesa al centro del villaggio” un detto francese che i romani padroneggiano in grande stile: dopo il derby vinto la sensazione si trasforma in concretezza, ai piedi di una squadra capace di intraprendere una striscia di dieci vittorie consecutive nelle prime dieci gare di campionato.“Roma padrona” si leggeva sulla prima pagina di «Tuttosport» all'indomani della vittoria contro il Chievo, il sigillo numero dieci che certifica la forza della compagine giallorossa: oltre ai singoli è nato un gruppo, qualcosa di troppo lontano dalla storia recente e, per questo, difficile da metabolizzare in così pochi mesi. “Mi sento romano e sono romanista”, frasi ad effetto che scavalcano la circostanza e che descrivono pienamente la simbiosi creata dalle abilità di Rudi Garcia: tutto in funzione della vittoria, tutto legato alla valorizzazione dei propri giocatori (da Strootman a De Sanctis, arrivando all'esplosione di Pjanic, Benatia e, più tardi, Nainggolan. Senza dimenticare il rapporto privilegiato con Totti – il capitano indosserà la maglia giallorossa fino a 40 anni grazie al rinnovo del settembre 2013 - e De Rossi), una semplicità che disarma e che, nello stesso momento, riesce a penetrare profondamente nel calcio italiano. La lotta contro la Juventus è avvincente, mentre la Roma polverizza record (vittorie, gol subiti e punti nella storia della società) i bianconeri tirano fuori unghie e potere (blasone e arbitri, come da copione) in un campionato dai numeri pazzeschi: l'epilogo è ottimo se si pensa al passato più prossimo, ma il secondo posto giallorosso lascia un pizzico di rimpianto ed una feroce consapevolezza nel futuro. Che sarà della Roma.

Tutto bello. Forse. Si, perché la chiesa rimane al centro del villaggio per poco, giusto il tempo di consumare il feeling con il francese in poco più di due stagioni: il secondo posto del primo anno getta le basi di un entusiasmo che il Garcia-bis non riesce a concretizzare nei successi del campo. Terzo posto nel girone di Champions, retrocessione in Europa League con sconfitta da parte della Fiorentina e addio alla Coppa Italia, sempre per mano dei viola. Il record di punti dell'anno precedente è solo un lontano ricordo, mentre i tifosi cominciano a interrogarsi sulle reali potenzialità del francese, il rapporto tra tecnico e società si logora pian piano: "La Juventus è irraggiungibile e il gap è destinato ad allargarsi ulteriormente", le parole di Garcia prima della sfida contro il Palermo, nell'ultimo appuntamento del campionato. Sincerità sconcertante che coglie di sorpresa buona parte della dirigenza, con Pallotta chiuso in un silenzio irritato e Sabatini che prova a fare da mediatore: "Ci confronteremo con Rudi, non credo volesse mettere le mani avanti, penso piuttosto che si sia spaventato dalla pressione che lui è la squadra hanno avvertito a un certo punto della stagione. Ma comunque non è in discussione". Nonostante le rassicurazioni del direttore sportivo e il secondo posto finale (grazie alla vittoria nel derby alla penultima giornata, quello del colpo di testa di Yanga Mbiwa e del "che te voi inventà" di tottiana fattura), Pallotta ha tutta un'estate per riflettere sulla posizione dell'allenatore: fiducia stiracchiata in un terzo anno che gli mette a disposizione Dzeko e Salah. Campionato e coppe viaggiano tra qualche alto ( su tutti il derby vinto 2-1) e parecchi bassi ( sconfitta per 6-1 contro il Barcellona ed eliminazione dalla Coppa Italia contro il modesto Spezia), un andamento che rende sempre più difficile la convivenza tra tecnico e proprietà, fino ad esaurire anche il credito fiduciario accumulato con i tifosi.

"Non so chi abbia deciso il mio esonero, ma sappiamo tutti come la mia strada sia stata segnata dopo quello che dissi prima del Palermo" - la puntualizzazione del francese a distanza di tempo dall'addio a Trigoria - "E comunque non c'è stato molto rispetto nei miei confronti, i contatti con il mio sostituto erano stati avviati già da diverso tempo ".

IL TEMPO DEI RITORNI: LA ROMA DA SPALLETTI A RANIERI

Il nome, sussurrato spesso con un pizzico di nostalgia, non poteva essere che quello di Luciano Spalletti: momento, contesto e tempi, tutto sembrava perfetto per un ritorno in giallorosso, giusto per chiudere un cerchio disegnato qualche anno prima.

"Niente alibi, bisogna vincere". Metà gennaio del 2017, a Trigoria si inaugura lo Spalletti-bis con una presentazione che spazia tra passato ("Ho ritrovato tanta gente che conoscevo già, è stata una bella emozione. Per il resto riparto da zero, quello che sette anni fa mi ha spinto a dimettermi è cancellato, ora è tutto nuovo"), presente ("Ho una squadra buonissima, devo imparare a conoscere i giocatori ma sono sicuro che potremo fare bene") e futuro ("Se non vinco, tra due o tre mesi chi adesso mi esalta sarà pronto a criticarmi, prendermi per un orecchio e portarmi in giro per la città. Ma ho un vantaggio, io Roma già la conosco bene"). Immancabili, ovviamente, i riferimenti al rapporto con Totti, un dualismo che caratterizzerà l'anno e mezzo della sua seconda avventura in giallorosso: "Io a Francesco ho dato tutto quello che potevo. E forse anche di più. Il suo rinnovo? Quella del contratto è una questione tra lui e Pallotta".

La loquacità del tecnico va a braccetto con i risultati sul campo: nella seconda parte del campionato la Roma vola, con 14 vittorie e una  sola sconfitta il terzo posto finale certifica una crescita che garantisce a Spalletti un altro anno sulla panchina romanista. Con Totti ancora in campo.

Quella del tecnico di Certaldo e il capitano è una storia che meriterebbe capitoli su capitoli per essere spiegata e analizzata, ma il passato più recente racchiude il paradosso di un amore nato, cresciuto e spezzato nel corso degli anni. Una stagione e mezza vissute sull'orlo di una crisi sempre pronta a fare capolino dalle parti di Trigoria, con le scelte di Pallotta e Baldini a fare da sfondo al tramonto della carriera di un campione.

Il rinnovo di contratto per un anno, arrivato a furor di popolo nel giugno 2016, celava già i piani futuri della presidenza: "Francesco si è guadagnato questo rinnovo e ora vogliamo che questa sua ultima stagione da calciatore coincida con una nuova epoca di successi per la Roma". Pensiero in linea con un progetto funzionale all'accompagnamento del numero dieci fuori dal rettangolo di gioco: "Baldini ha voluto il mio addio al calcio", rivelerà in seguito Totti, pronto a mettere nero su bianco la sua autobiografia senza fare sconti a nessuno. Un anno in più, sospiro di sollievo per i tifosi ma un boccone piuttosto amaro per i piani di Spalletti: negli occhi ci sono ancora le prodezze del capitano contro il Torino (gol dopo 22 secondi dall'ingresso in campo e bis su rigore allo scadere) e un contributo notevole in termini di assist, gol e carisma. "Se lui non rinnova, io vado via anche se faccio il Triplete", segnali di stima che sembrano aprire la porta a una riconciliazione ma la realtà è ben diversa: "Spalletti dice che vuole il mio rinnovo. Ma che prolungo a fare il contratto se poi non mi fa giocare?". Il botta e risposta si muove nel corso di tutto l'anno e mezzo dello Spalletti-bis, arrivando a toccare vette estremamente negative nel reciproco indice di gradimento: il fatto più eclatante è l'esclusione di Totti dopo un'intervista  in cui il capitano aveva portato alla luce le spine di un feeling ridotto al lumicino. "Con l'allenatore ho un rapporto da buongiorno e buonasera. Gestirmi meglio sarebbe un bene per tutti. Ma soprattutto vorrei un po' di rispetto". Bomba esplosa e caos totale, il numero dieci è "cacciato da casa sua" (come evidenzierà Ilary, arrivando a definire Spalletti "un piccolo uomo") e Olimpico che si schiera compatto dalla parte del giocatore: il seguito è noto, con una convivenza che si trascina fino al maggio 2017, quando il mondo romanista vivrà uno dei momenti più emozionanti e struggenti. "Spegnere la luce non è facile. Adesso ho paura". Cuore aperto e tante lacrime per l'addio al calcio di Francesco Totti: lui vicino alla bandierina a protezione del pallone, l'ultima istantanea prima di un triplice fischio che segna la fine di un Roma-Genoa che vale la Champions e di un sogno lungo quasi trenta anni. Giro di campo e occhi lucidi allo stadio e davanti alla televisione, mentre scorrono le immagini di una carriera formidabile spesa interamente con i colori giallorossi: "Mi levo la maglia per l'ultima volta, la piego per bene anche se non sono pronto a dire basta e forse non lo sarò mai. Nascere romani e romanisti è un privilegio, fare il capitano di questa squadra è stato un onore, siete e sarete sempre nella mia vita". Parole cariche di amore che accarezzano il cuore dei tifosi e che aprono un vuoto nell'orizzonte sportivo della società: "E adesso che succederà? Speravo de morí prima", paure che diventano slogan e che tracciano un "prima" e un "dopo" nella storia della Roma.

LA ROMA DOPO TOTTI: ECCO DI FRANCESCO E IL SOGNO CHAMPIONS

Difficile immaginare una Roma senza Totti in campo, il "day after" l'addio del capitano riecheggia dei fischi implacabili nei confronti di Spalletti e Pallotta: il tecnico si chiama fuori ("Non meritavo tutto questo astio. Grazie alla mia gestione Francesco è riuscito a giocare un anno in più, non sono stato io a farlo smettere"), mentre il nuovo punto di riferimento si chiama Monchi. Spagnolo dal curriculum vincente con il Siviglia, il "Re mida" delle plusvalenze si insedia a Trigoria per colmare un vuoto di potere che individua nel Direttore sportivo la soluzione perfetta: poco meno di due anni (dall'aprile 2017 al marzo 2019) in cui, in realtà, di perfezione se ne vedrà davvero poca, un progetto naufragato tra slogan, acquisti sbagliate e una voglia sempre più crescente di tornare a casa, in Andalusia.

Accompagnato alla porta Totti, Monchi si concentra sul dopo Spalletti, optando per il ritorno di Di Francesco: "Conosce l'ambiente, dove ha vissuto già grandi emozioni da calciatore. Ho preferito prendere un allenatore italiano perché già ci sono io che vengo da un altro paese e sarebbe stato azzardato puntare anche su un tecnico straniero". L'idea è quella di riproporre anche all'Olimpico il calcio dinamico e veloce ammirato con il Sassuolo, con un occhio alle esigenze di bilancio: "Alla Roma non c'è il cartello " si vende ", ma quello" si vince ". Il peccato originale prima nelle parole e poi nei fatti, l'abbaglio per il guru spagnolo è durato giusto il tempo di capire quanto forma e sostanza viaggiassero su binari differenti: via Ruediger nonostante i proclami di incedibilità, stessa sorte per Salah, Emerson Palmieri e, più avanti per Alisson e Nainngolan. Un biennio a fare e disfare una squadra capace, nel primo anno di Di Francesco, di arrivare alla semifinale di Champions League: è il punto più alto della gestione americana, un percorso che ha regalato emozioni incredibili come la rimonta storica sul Barcellona (sconfitta per 1-4 al Camp Nou e vittoria per 3-0 all'Olimpico), la serata perfetta prima di incontrare la maledizione Liverpool a un passo dalla finale. La Roma del tecnico abruzzese è anche quella di Totti dirigente e De Rossi capitano (non più futuro), un'espressione di romanità destinata a durare poco in questa formula. Smaltita la sbornia della cavalcata in Europa, per il mondo giallorosso c'è da fare i conti con la solita realtà: nonostante gli introiti importanti derivati dai risultati in Champions, Monchi e la dirigenza smantellato una squadra destinata a crescere. L'inizio del secondo campionato di Di Francesco fa giusto in tempo a salutare anche Strootman (venduto l'ultimo giorno di mercato, dopo aver disputato la prima giornata), per il resto l'anno scorre ampliando le incertezze di un progetto che fatica a decollare. Tanti giovani e presunti campioni (Nzonzi e Pastore su tutti), equivoci tattici e una tenuta atletica mai ottimale, il destino dell'ex allenatore del Sassuolo è praticamente segnato: già nel settembre 2018, dopo la sconfitta con il Bologna, tifosi e media parlano di "nulla assoluto" riferito alla mancanza di idee in campo e in panchina, i mesi successivi sono un calvario fatto di accuse ("Siamo in crisi, ai miei giocatori non riesce nulla") e decisioni inevitabili. All'inizio di marzo 2018, dopo la sconfitta nel derby e l'eliminazione dalla Champions con il Porto, Pallotta esonera Di Francesco: l'addio era stato deciso già da tempo, rimandato dopo l'umiliazione in coppa Italia con la Fiorentina (7-1 al Franchi), è stato il passo fisiologico per dare una svolta alla stagione romanista. A ruota segue Monchi ("Gli avevo dato carta bianca, ha fatto un disastro", confesserà Pallotta con un pizzico di soddisfazione), sempre più al centro delle critiche e voglioso di ritornare nella sua Siviglia.

RANIERI, TOTTI E DE ROSSI, ADDIO ALLA ROMA ROMANISTA

"Sono tornato a casa. Se la Roma chiama, io rispondo sempre presente". Claudio Ranieri da San Saba abbraccia ancora i colori giallorossi, un aiuto in extremis che coniuga il romanticismo e la voglia di normalità. Da marzo a giugno per provare la rincorsa alla Champions: "In 12 gare ci giochiamo il futuro". Nessun proclama, poche promesse e profilo basso per un ritorno sponsorizzato anche da Totti: "Non è solo un tifoso della Roma, ma uno degli allenatori più preparati del mondo". Il contratto è a termine, fino a giugno per traghettare i giallorossi all'incipit dell'ennesima rivoluzione. Il campo (nonostante le dirette avversarie facciano di tutto per alimentare le speranze romaniste), non regala particolari colpi di scena, lasciando la Roma fuori dalla zona Champions: la media punti con Ranieri è simile a quella di Di Francesco (1,72 punti a partita contro 1,69) e l'incertezza sul futuro della guida tecnica non aiutano a far rendere la squadra nel migliore dei modi. Come se non bastasse arriva maggio, con un doppio dolore per tutti i tifosi: le lacrime e l'inchino di Ranieri verso la Sud ("Mr. Ranieri, nel momento del bisogno hai risposto presente. Adesso ricevi l'omaggio della tua gente", o striscione dedicato dalla curva) ma sopratutto l'addio di Daniele De Rossi. In una stagione segnata da guai fisici e l'incertezza sul rinnovo del contratto, il capitano aveva rotto gli indugi pochi giorni prima della fine del campionato: "Se nessuno, nel corso di un anno, non ti chiama per discutere di un nuovo contratto si fa presto a capire. Non sono scemo, ho 36 anni e ho vissuto tanto nel mondo del calcio. Avrei potuto dare ancora tanto, ma quella della società è una decisione che rispetto. Rimanere da dirigente? Io mi sento ancora calciatore. E poi preferisco far fare il lavoro "sporco" a Totti. Anzi, spero che lui possa prendere sempre più potere. Poi, se la Roma lo vorrà, magari un giorno potrei tornare e affiancare Francesco". Ed è proprio l'immagine dell'abbraccio a metà campo tra i due simboli romanisti a chiudere una delle pagine più importanti della storia della Roma: passerà meno di un mese e anche Totti uscirà di scena dal mondo giallorosso, lamentando una scarsa considerazione per la sua figura e sottolineando quanto a Trigoria il vuoto di potere sia sempre più critico.

"Non mi hanno mai voluto. Mi tenevano all'oscuro di tutto, venivo chiamato solo quando si presentava qualche difficoltà e dovevo mettere io la faccia". In una conferenza-sfogo, Totti spiega i motivi del suo addio alla Roma e ad un ruolo dietro la scrivania in cui non è riuscito a incidere quanto si aspettasse: "Se io fossi presidente della Roma e avessi due bandiere come Totti e De Rossi in società, gli darei in mano tutto, per quello che hanno fatto e per rispetto. Ti possono spiegare cosa è la romanità. È quello che non è stato mai chiesto. Pallotta si è sempre contornato di persone sbagliate. Se faccio sempre gli stessi errori per 8 anni, devo chiedermi il perché, è questo che si domanda qualsiasi tifoso. Mi hanno costretto a smettere di giocare, poi da dirigente mi hanno fatto tante promesse che non sono mai state mantenute. La verità è che a Trigoria ci sono persone che vogliono il male della Roma". È il 17 giugno 2019, per il mondo romanista si apre l'ennesima crisi e un periodo di incertezza che rischia di compromettere il futuro.

DA PALLOTTA A FRIEDKIN, ECCO LA NUOVA AMERICA

Un lungo sospiro e si riparte. La sensazione di fragilità è tale da non permettere di guardare troppo avanti, per i tifosi della Roma è tempo di vivere alla giornata sperando che qualcosa cambi presto. Via De Rossi e via Totti, con loro si disgrega un senso di romanità che ha accompagnato per anni i colori giallorossi: il nuovo capitano sarà Florenzi, suo malgrado catapultato in un ruolo che interpreterà con alterne fortune, mentre nell'ombra cresce il talento di Lorenzo Pellegrini. Forse troppo poco a cui aggrapparsi per i tifosi, in particolare se si somma alla scelta fatta per la panchina: Paulo Fonseca è l'allenatore pensato per aprire una nuova pagina del progetto bostoniano, una scommessa a tutti gli effetti che deve fare i conti con lo scetticismo quasi generale. "Conte è l'unico allenatore che ho contattato dopo Ranieri. Se fosse arrivato lui sarei rimasto. Però doveva venire qui e fare una rivoluzione e non voleva. Ha preferito una squadra già pronta per competere ad alti livelli". La rivelazione di Totti spiega molto della scelta Fonseca: il portoghese, in pratica , ha rappresentato un'opzione di ripiego in un momento di grande confusione. L'approccio dell'ex tecnico dello Shaktar è sostanzialmente neutrale, puntando su un'idea di gioco "in cui la cosa importante sono la difesa del pallone e l'intensità", senza regalare particolari spunti a un ambiente sull'orlo di una crisi di nervi: "Spero di rendere orgogliosi i tifosi. Per me parleranno i risultati e spero che nel futuro potremo vincere qualcosa". Accanto a lui c'è Gianluca Petrachi, direttore sportivo "strappato" al Torino che a Trigoria durerà meno di un anno: "Alla Roma mi sono ritrovato solo contro tutti", rivelerà qualche mese dopo il licenziamento. E per "tutti", intendeva davvero ogni componente dell'universo romanista: tifosi, squadra, allenatore e alla fine anche la dirigenza, per un epilogo inevitabile che lo porterà a fare causa per mobbing alla società.

Mentre Fonseca e la squadra producono risultati mediocri sul campo, i vertici societari sono impegnati nella ricerca di un acquirente: Pallotta si avvicina al terzo anno di assenza dalla capitale, il progetto stadio fatica a decollare e l'ambiente fatica a ritrovare entusiasmo. Tutti segnali che portano a una conclusione capace di mettere d'accordo praticamente tutti: alla fine del 2019 iniziano a rincorrersi le voci sul forte interesse per la Roma da parte del magnate texano Dan Friedkin, una figura che sposta l'America da Boston a Houston. In tempi di Covid-19 tutto il mondo si ferma, rallentando una scalata che avrà bisogno di diversi mesi per essere completata: nel tira e molla tra Pallotta ("Il gruppo Friedkin si è avvicinato a noi lo scorso autunno e verso la fine dell’anno stavamo iniziando a trovare un accordo. Abbiamo approfondito i dettagli, nei quali spesso si nascondono le difficoltà, ma dopo le modifiche apportate dai loro avvocati e banchieri, l'offerta ha iniziato a trasformarsi in qualcosa di sempre meno appetibile sia per la Roma sia per il nostro gruppo di investitori. L'ultima offerta semi-concreta che abbiamo ricevuto, sulla quale dei dettagli sembrano essere trapelati da alcuni dei loro avvocati o banchieri, non era minimamente accettabile. E questa è l'offerta che sembra aver molto turbato qualcuno") e il gruppo Friedkin, i tifosi si ritrovano a vivere di una speranza che fatica a concretizzarsi. Dopo il lockdown mondiale, il campionato riparte con una formula contratta, si gioca ogni tre giorni e anche in piena estate: i giallorossi navigano nell'incertezza ma alla fine si piazzano quinti e accedono direttamente in Europa League, mentre in società ci si prepara alla grande rivoluzione.

"Siamo entusiasti di entrare nella famiglia dell'As Roma. È un club iconico che vogliamo rendere uno dei nomi principali dell'universo calcistico". La nota, firmata Dan e Ryan Friedkin, apre una nuova pagina della storia romanista: è il 17 agosto 2020 e il "gigante addormentato", come è stato definita la Roma dai nuovi proprietari, è pronta a risvegliarsi. E con lei tutto l'amore dei tifosi.

'ultimo anno di Fonseca In panchina si rivela di transizione, tra errori incredibili (come l'inserimento di Diawara nella lista degli Under 23 nella gara contro il Verona e le sei sostituzioni nella partita contro lo Spezia, sviste che portano a due sconfitte a tavolino), litigi (a Dzeko viene tolta la fascia da capitano) e infortuni (saranno quasi settanta gli stop per problemi di vario tipo). A gennaio 2021 arriva Tiago Pinto come General Manager ("Questo è un progetto a medio-lungo termine, ma insieme ai Friedkin stiamo lavorando per rendere questa squadra più competitiva"), mentre la squadra naviga tra alti e bassi in campionato (alla fine sarà settimo posto), sbattendo contro il Manchester United nella semifinale di Europa League.

LA ROMA DELLO SPECIAL ONE 

E poi venne Mourinho. Squarciando maggio e accendendo i sogni, l'annuncio dell'ingaggio del portoghese è stato il classico fulmine a ciel sereno: "José rappresenta un grande passo in avanti nella costruzione di una mentalità vincente, solida e duratura, nel nostro Club".

La nota che accompagna l'avvento dello Special One è firmata Dan e Ryan Friedkin, mente e braccio di una mossa che sa di all-in: "Dopo essermi confrontato con la proprietà e con Tiago Pinto ho capito immediatamente quanto sia alta l’ambizione di questa Società. Questa aspirazione e questa spinta sono le stesse che mi motivano da sempre e insieme vogliamo costruire un percorso vincente negli anni a venire. L’incredibile passione dei tifosi della Roma mi ha convinto ad accettare l’incarico e non vedo l’ora di iniziare la prossima stagione. Allo stesso tempo, auguro a Paulo Fonseca le migliori fortune e chiedo ai media di comprendere che rilascerò dichiarazioni solo a tempo debito. Daje Roma!”. Mourinho si cala immediatamente nella realtà di una piazza affamata di carisma e voglia di spezzare una mediocrità che dura da troppo tempo, gli basta poco per capire quanto amore incondizionato possa ricevere sotto i colori giallorossi: dallo sbarco di inizio luglio a Ciampino, accompagnato da un aereo privato dei Friedkin, al saluto di Trigoria, fino al giro in Vespa (spunto per meme e murales, un'immagine che farà il giro del mondo), i primi giorni nella Capitale sono da vivere tutti d'un fiato.

"Lavorare, seminare e aspettare il tempo per raccogliere i frutti. Ho un contratto triennale, ovviamente sarà la società a decidere il futuro ma ho firmato 3 anni. Qua non si vince da tanti anni, serve capire perché la squadra è arrivata a 29 punti dalla vetta. Devo chiedermelo e devo trovare le risposte, il club e i dirigenti sanno che c’è molto lavoro da fare ma vogliamo arrivare a dei titoli. Vincere immediatamente normalmente non succede, anche se nel calcio mai dire mai". Le prime parole da allenatore della Roma sottolineano la voglia di creare qualcosa di grande e duraturo, il Mou-pensiero viaggia verso l'empatia, il pragmatismo e la massima connessione con dirigenti, giocatori e pubblico.

E tutto sembra andare per il verso giusto, con il mercato che regala Abraham in attacco e uno spogliatoio pronto a seguire la stella di uno dei tecnici più blasonati al mondo: l'inizio è convincente, tra Conference League e campionato, la Roma sembra pronta a fare il salto di qualità che Mou chiede costantemente.

Ma la vita ( in particolare quella a tinte gialle e rosse), è fatta di momenti, frammenti che cambiano il corso delle storie: il primo ostacolo sul percorso tecnico e dialettico dello Special One si concretizza nel freddo della Norvegia, dove la vitalità inaspettata del Bodø/Glimt apre un solco profondo nell'apparente serenità romanista. La sconfitta per 6-1 è qualcosa di inaccettabile per tifosi e tecnico, che per la prima volta accantona l'idea zen di un approccio più morbido alle cose di spogliatoio: "Sapevo dei limiti dei nostri giocatori, ma mi aspettavo una risposta diversa. È stata una decisione mia, quindi è responsabilità mia. Abbiamo perso contro una squadra che ha più qualità di noi: la nostra squadra che ha iniziato la partita è inferiore al Bodø”. Nonostante le rassicurazioni sul gradimento del lavoro societario in sede di mercato - "Non sono uno str**o, sia io che i tifosi dobbiamo credere nel lavoro di Tiago e della società, ma una prestazione del genere non si dimentica" - nel corso delle settimane Mourinho porta avanti una scrematura nella rosa, cercando una quadra anche con la cessione di diversi calciatori. I primi mesi a Trigoria passano tra l'amore della gente (l'Olimpico si popola partita dopo partita, è l'alba della magia dei sold out casalinghi), le corse sotto la curva (leggasi le mille panchine in carriera e la rimonta in extremis contro il Sassuolo) e la sensazione che, tra alti e bassi, il futuro possa riservare qualcosa di grande.

Il 2022 si apre con due sconfitte contro Milan e Juventus, dopo i bianconeri il tecnico parla di "una mentalità vincente che deve essere creata, ma per fortuna qui ho tutta gente disposta a imparare". L'altalena in campionato fa da contorno alle notti europee, dove l'esperienza e la preparazione di Mourinho fanno la differenza: serate come quelle contro il Vitesse, ancora il Bodø e il Leicester creano il mito di una Roma in formato continentale. Il punto più alto è senza dubbio la finale di Tirana, e poco importa se per arrivarci i giallorossi hanno dovuto sacrificare la corsa al quarto posto: emozioni e immagini indelebili di una serata che ha riportato i romanisti sul tetto d'Europa, assist di Mancini e gol di Zaniolo a spazzare via le paure nella sfida contro il Feyenoord. "Dove vedo la Roma fra tre anni? A festeggiare". La profezia di una calda mattinata di luglio è diventata realtà con un anticipo che sa di miracolo: Mourinho lo aveva detto con una convinzione a lungo termine, ma le lacrime per il primo trofeo europeo dopo la Coppa delle Fiere raccontano di un legame sempre più stretto tra Roma e l'uomo di Setubal.

MOU, L'AMORE E L'INCUBO TAYLOR

Archiviata Tirana, si riparte. L'obiettivo è alzare l'asticella dell'ambizione, spostando il tiro sull'Europa League e un piazzamento Champions. È l'estate del "mercatino", degli addii di Veretout e Mkhitaryan e dell'abbraccio a Matic e Dybala: "È assurdo dire che siamo da scudetto, il nostro è stato un mercato da 7 milioni, a differenza di squadre che hanno speso molto di più. Non sono insofferente di fronte a quello che ha portato la campagna acquisti, i nuovi sono arrivati con il mio consenso". L'idea è quella di superare il limite mentale di un ambiente poco abituato a vincere con continuità, oltre ai festeggiamenti per la Conference ("In momenti come quello capisci che non vinci per te stesso, che non è una gioia personale. La gente è tutto e ti senti parte di una famiglia") e la vena artistica di un tatuaggio ("L'idea era di farmene uno con tutte e tre le coppe che ho vinto. E posso farlo solo io").

Quasi tutto passa per il genio di Paulo Dybala, svincolato dalla Juventus e accolto in giallorosso con una presentazione da brividi: è lui che deve accendere la fantasia, inserito in un contesto di squadra che presto scoprirà la fragilità fisiche e mentali di una rosa minata dai guai fisici. Wijnaldum é il primo (out praticamente tutta la stagione a seguito della frattura della tibia in allenamento), mentre Abraham sarà l'ultimo di una lista che alla fine reciterà 18 infortuni di natura traumatica, un numero che inciderà tantissimo sulle rotazioni dei calciatori. In campionato l'andamento è simile a quello dell'anno precedente, con i giallorossi costretti a scegliere tra l' Europa League e la Serie a. Sono proprio le serate di coppa a regalare le soddisfazioni maggiori al popolo romanista: la risposta del pubblico è sempre più commovente ("Mai vista una tifoseria di questo tipo, capace di spingere la squadra nonostante il risultato", un must che Mou non dimentica mai di sottolineare), ed è l'amore il trait d'union capace di legare i tifosi alla cavalcata europea. Nell'anno della sosta invernale per il Mondiale in Qatar, i giallorossi arrivano secondi nel girone di Europa League dietro al Betis, riuscendo a vincere contro squadre di grande calibro negli scontri a eliminazione diretta: Pellegrini e compagni mettono in fila vittorie importanti, battendo Salisburgo, Real Sociedad, Feyenoord e Bayer Leverkusen, un percorso che brilla per spirito di sacrificio e coraggio. Ogni partita è accompagnata dal calore di un pubblico che non smette mai di stupire, motore di una squadra falcidiata dagli infortuni: "Gare come quelle contro il Bayer sono epiche. I nostri tifosi sono fantastici e i miei ragazzi nelle difficoltà trovano sempre un'organizzazione e una grande empatia. Non è solo un piacere allenarli, ma un vero e proprio onore."

Parole al miele che volano direttamente verso Budapest (sede della finale), poco importa se lo sforzo europeo fa pagare dazio in campionato: " Se noi fossimo fuori dalle coppe saremmo secondi o terzi in campionato, perché non ci sarebbero stanchezza e infortuni. Siamo vittime del bene che i ragazzi hanno fatto da inizio stagione". Presente e futuro si mescolano nel ventre della Puskas Arena, dove la Roma affronta il Siviglia nell'ultimo step prima del Paradiso. La cronaca è quella di un sogno consumato a metà, infranto senza pietà dal fischietto inglese di Anthony Taylor: è l'inizio della fine, il mondo di Mou si sgretola nella pancia dello stadio ("Taylor, sei una fot***a disgrazia"), nonostante l'immagine strappalacrime del tecnico che in mezzo ai giocatori assicura "io resto qui con voi anche il prossimo anno".

DAN, DA MOURINHO A DDR

Il Mourinho-ter si apre con le inevitabili scorie della notte ungherese: quattro giornate di squalifica per il portoghese dopo gli insulti a Taylor e la netta sensazione che i conti con gli arbitri siano tutt'altro che chiusi. Che sia in Italia oppure in giro per l'Europa, il rapporto dello Special One con la classe arbitrale si è deteriorato mese dopo mese: tra foto "ammanettato" a gesti che mimano ipotetiche telefonate ("Ti ha mandato la Juventus", rivolto a Pairetto dopo l'espulsione rimediata nel 2022 contro il Verona), il cerchio intorno alla figura di Mou comincia a stringersi in modo preoccupante. Uefa e Aia nel mirino, con i Friedkin ad osservare uno scollamento sempre più tangibile con i direttori di gara e parte dello spogliatoio. Ma non con l'ambiente, sempre pronto a supportare le battaglie dialettiche del portoghese e una squadra che fatica a decollare. Il campionato si apre nel peggiore dei modi ( un solo punto nelle prime tre partite) e l'arrivo di Lukaku non fa altro che nascondere parzialmente una realtà facilmente decifrabile: la Roma è una squadra costruita male (via Matic e dentro Paredes e la scommessa Renato Sanches ), senza uno sviluppo di gioco chiaro, mentre grinta e determinazione paiono un lontano ricordo. L'equivoco tecnico e tattico che frena i giallorossi nasce da una serie di fattori, determinati in gran parte da un rapporto sempre più logorato tra il tecnico, la proprietà e parte dei giocatori. Mou non perde occasione per ribadire "quanto sia stato lasciato da solo nella sua protesta contro la Uefa", mentre il campo ribadisce che il gruppo non rema tutto dalla stessa parte: "C'è chi mi chiede di giocare, bussa alla mia porta e vorrebbe una maglia da titolare. Ma come faccio a farlo giocare di più? Visto il modo in cui si comporta, lo metterei in campo solo se gli altri fossero morti". Parole che arrivano dopo il pareggio esterno contro il Servette ma che in un modo o nell'altro il portoghese ribadisce anche in altre occasioni, segnali inequivocabili che trascinano un matrimonio benedetto ormai solo dalla maggioranza dei tifosi: lo stadio Olimpico continua a essere pieno, anche a fronte di risultati tutt'altro che positivi, una dimostrazione di amore che non basta ai Friedkin per vedere un futuro con lo Special One.

Agli appelli del portoghese ("Potevano esserci dubbi, così ho detto chiaramente la mia posizione, è tutto molto chiaro adesso. Prima potevano pensare che volevo aspettare, che dipendeva da tante cose ma ho voluto essere onesto. Ho avuto offerte dal Portogallo, dagli arabi, ho parlato con la società e sono rimasto. Adesso la mia onestà finisce qua: mi piacerebbe rimanere pur con tutte le difficoltà che ci sono. Questa è la mia posizione, ora non c’è niente da parlare”), fa seguito il silenzio più assoluto della proprietà, assente più nelle parole che nei fatti.

È proprio lo spirito pragmatico di Dan e Ryan che porta alla decisione dell'esonero: dopo il saluto di Tiago Pinto ("Il mio rapporto con la Roma si chiuderà alla fine di gennaio" ), il ko nel derby di Coppa Italia e la sconfitta con il Milan, un comunicato di poche righe cancella un pezzo di storia romanista. "Ringraziamo José a nome di tutti noi all’AS Roma per la passione e per l'impegno profusi sin dal suo arrivo in giallorosso. Conserveremo per sempre grandi ricordi della sua gestione, ma riteniamo che, nel migliore interesse del Club, sia necessario un cambiamento immediato. Auguriamo a José e ai suoi collaboratori il meglio per il futuro”. Sono le 9:30 del 16 gennaio 2023, una data capace di aprire una ferita nel mondo romanista, che i Friedkin provano a rimarginare subito grazie a Daniele De Rossi: è lui il prescelto per scavare un solco con il passato ingombrante di Mourinho, senza però perdere il sostegno dei tifosi in una stagione che ancora può regalare qualche sogno. Contratto di sei mesi con vista verso il futuro: "La proprietà è stata chiara con me e sul tenore della mia permanenza qui. La conferma, però, la voglio meritare sul campo, per questo ho chiesto di essere trattato come un allenatore e non come una bandiera da portare in giro". Una vocazione che si trasforma in missione, in bilico tra l'opportunità della vita e la paura di essere tornato troppo presto: "Mi immaginavo, un giorno, di poter sedere su questa panchina, ma non pensavo così presto e in corsa. La Roma non si rifiuta. Lo avrei fatto solo se avessi pensato che la squadra era scarsa". L'esordio è in un Olimpico che divide il suo cuore, con i saluti a José a fare da sfondo al nuovo abbraccio a De Rossi ("Nessuno è più capace dei tifosi della Roma di saper amare due persone insieme, nessuno gli toglierà l'amore per Mourinho ma credo possano farlo anche con me"): la vittoria di misura contro il Verona è un'appendice in un nuovo capitolo della storia giallorossa, fatto di speranze e di una semplice promessa: "Me la giocherò fino alla morte per rimanere qui. E i Friedkin lo sanno, credo siano contenti di questo. Non ricorrerò a quello che sono stato, mi giocherò sul campo la riconferma perché sarebbe un sogno per me".