rassegna stampa roma

Jeremy, il sociale e l’antisociale

(Il Romanista – P.Marcacci) “Sono un tipo antisociale, non m’importa mai di niente, non m’importa dei problemi della gente…”: queste parole, provocatorie e apparentemente nichiliste, le cantava Francesco Guccini ne...

Redazione

(Il Romanista - P.Marcacci)"Sono un tipo antisociale, non m’importa mai di niente, non m’importa dei problemi della gente...": queste parole, provocatorie e apparentemente nichiliste, le cantava Francesco Guccini ne "Il sociale e l’antisociale", uno dei suoi brani d’esordio;

fine anni ’60, nel clima delle osterie bolognesi di fuori porta. Soltanto molti anni dopo, circa venti, sarebbe nato nella cittadina di Longjumeau, nella regione dell’ Ile-de-France, tale Jeremy Menez, che all’epoca ancora non divideva nessuno e nessuno riusciva a far dannare, esclusi forse i genitori, ammesso che il bambino fosse particolarmente capriccioso. Se proprio dobbiamo azzardare un’ipotesi, ma solo per gioco, sui suoi atteggiamenti dll’epoca, lo immaginiamo più che altro taciturno e piuttosto lunatico, ma in questo siamo condizionati da ciò che vediamo sul terreno di gioco ora che è cresciuto. Detto questo e per tornare alla canzone di Guccini (uno che non ama granché il calcio ma che simpatizzerebbe a pelle per un anarchico come Menez), sabato abbiamo visto all’opera, si fa per dire, il Menez più antisociale possibile, visto anche il dissenso dello stadio: spesso avulso dal contesto del gioco e indisponente per atteggiamento; pur con delle fiammate in positivo che sono state secondo noi sottovalutate dalla critica a causa del risultato finale e dell’indolenza manifestata a più riprese. Certamente una cartolina non bella da inviare a Boston, in un momento storico come questo.

Però chi ha buona memoria o, semplicemente, valuta ogni momento di partita, sa che esiste anche una versione "sociale" di Menez, anzi quasi socialista diremmo, nel senso che i momenti di grande ispirazione e di luna buona che ha attraversato il francese ce li ricordiamo come momenti di plebiscito, a livello di gradimento delle masse giallorosse. Giocate e "strappi", così geniali ed irriverenti per l’avversario, così devastanti nel lasso di pochi secondi, che ci avevano fatto gridare, soltanto pochi mesi fa, alla proclamazione del genio assoluto, del talento che stava per entrare nel novero ristretto di coloro destinati a contrassegnare un’epoca calcistica. Adesso sembra preistoria, però va anche ricordato che il primo a rilasciare un giudizio simile su di lui è stato un certo Zinedine Zidane, che di fuoriclasse ci capisce qualcosapiù di tutti noi messi assieme. Il prossimo 7 maggio Menez compirà ventiquattro anni: forse tanti se ci si rapporta a carriere di altri fuoriclasse che oltre alle potenzialità hanno già fornito conferme e vinto trofei; forse pochi per decretare una bocciatura assoluta, per dichiarare persa la scommessa. Il fatto è che Menez, anche soltanto per formulare un giudizio compiuto su di lui, è come in campo nelle giornate di massima ispirazione: non ti dà punti di riferimento certi, anzi te li sottrae proprio quando pensi di averne acquisito qualcuno.

Ora, il dilemma, che il pubblico della Roma in verità sembra aver già sciolto con i fischi contro il Palermo (ma è giusto,dopo una gara del genere, additare i soli Menez e Vucinic?), è il seguente: è più grande il rischio di tenere un giocatore del genere, spesso autolesionista per atteggiamento o quello di lasciarlo andare per vederne esplodere una carriera che in potenza può ancora diventare fulgida, magari sotto la guida tecnica giusta? Nell’impossibilità di rispondere ad un quesito che implica psicanalisi e congiunzioni astrali, io comincio da stasera, sostenendo la tesi impopolare, impopolarissima al limite dell’autolesionismo, che stasera lo vorrei in campo dal primo minuto: proprio perché da lui non sai mai cosa aspettarti,ci sta anche che ci faccia il "dispetto" di farci ricredere per l’ennesima volta. L’ultima?