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Roma, ma quale scudetto. Garcia rassegnato a Verona: “Salviamo il secondo posto”

Com’è già accaduto altrove, a Verona qualcuno corre, altri aspettano, qualcuno entra duro, altri evitano. Mai sintonie, mai continuità nell’offrirsi alla giocata d’insieme.

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Mossa da congenita bontà d’animo, la Roma riesce sempre a raggiungere l’obiettivo della sua attuale filosofia sportiva, riassumibile in un caritatevole concetto: un punto non si nega a nessuno. Parma, Verona, Feyenoord. La Roma abbassa il finestrino della sua stravagante corriera e saluta la Juventus, ciao cara io non ti penso più: “Preoccupiamoci piuttosto di proteggere il secondo posto”, dicono all’unisono Garcia e Sabatini, facendo sparire di colpo la parola scudetto.

La Roma di questi disarmonici e mediocri giorni ha un pregio: cerca ad ogni costo di somigliare alla modesta squadra che incontra, non ha cura di se stessa, né di ciò che è stata. La sostanza di un tempo sembra definitivamente perduta, perduta la personalità di gruppo, perdute le forze supplementari che univano i giocatori in campo sino a confondere fase difensiva e fase offensiva. E il suo carattere non è nemmeno sufficiente per liberarsi del fragile Verona. Garcia era un leader, lo ascoltavano tutti. Il meccanismo di richieste e prestazioni funzionava a meraviglia, giocatori e manager parevano possedere un solo cuore. Adesso alla prima difficoltà, che sia dovuta al risultato o d’origine fisica, la squadra si allarga come colpita da un meteorite, i giocatori faticano a distinguere i compagni, l’allenatore sostituisce Florenzi infortunato alla caviglia solo dopo averlo mandato a saltare in area dolorante a contrastare Jankovic e proprio Jankovic (“forse c’era fallo su Florenzi”, protesta Garcia) provoca l’autorete di Keita (38’ pt).

Ai primi disagi esce allo scoperto il nervo ammalato della Roma, va in onda il suo calcio sincopato, fatto di ostinazione. Verde entra troppo tardi. Gli ivoriani sono impresentabili (Gervinho gioca da fermo e quando parte medita vendette solitarie, Doumbia liscia il pallone). Dall’acquosa prestazione emergono volti attoniti, neppure così stremati. Immaginate di mettere insieme alcuni versi di poesie presi qua e là e pretendere di leggerli uno dopo l’altro: il risultato è un miscuglio orribile di belle frasi staccate, nessun senso compiuto, nessuna logica, nessun padrone. Ecco la Roma.

Com’è già accaduto altrove, a Verona qualcuno corre, altri aspettano, qualcuno entra duro, altri evitano. Mai sintonie, mai continuità nell’offrirsi alla giocata d’insieme. Anche ieri una decente mezz’ora ha partorito la miseria di una rete scaturita per di più da un’invenzione di Totti, la sua n. 240, che ha calciato da 25 metri (26’ pt). Poi una traversa di Ljajic su punizione (46’ pt). Poco perché i contorni erano confusi, i tessuti slabbrati. Poco era anche il Verona. Soltanto una palla inattiva poteva resuscitarlo. E così è stato (vedi sopra).

Nel secondo tempo è andata in scena la solita brutta pellicola girata male da un regista svogliato. L’unica palla gol l’ha avuta Halfredsson (7’ st). La Roma, che deve rallegrarsi se il Verona non disponeva di un contropiedista, procedeva a strappi, senza idee né gambe, stanca di doversi dannare l’anima, che non è detto abbia ancora (solo Ljajic correva senza palla).Stanca per un futuro che il presente non riesce più a costruire. Stanca perché alla Roma sognano il bel calcio, lo vedono, ogni tanto, e ogni tanto lo toccano pure. Ma non dura mai.