C’era solo un uomo che poteva spezzare l’incantesimo. Solo un uomo che poteva prendere una squadra svuotata e farne una regina. La sua regina. È bastato un anno a José Mourinho per spezzare 14 anni di digiuno romanista da trofei, e uno molto più lungo, il tabù che in Europa aveva fermato questa squadra sempre a un centimetro dalla gioia, dall’euforia, scrive Matteo Pinci su La Repubblica.
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Quella esplosa in una notte albanese, in uno stadio piccolo non solo per la gente ma per contenere l’emozione: che forse era troppa per qualunque impianto, se in una notte così non sono stati sufficienti due stadi, con l’Olimpico sold out senza che lì rotolassero palloni. La Roma che vince, chi la ricordava più. Che in una notte cancella le delusioni delle finali perse col Liverpool e con l’Inter, che cancella gli anni in cui ogni estate si guardava al mercato non con le speranze come fanno tutti i tifosi, ma con la paura di chi avrebbe salutato.
Ora che tutti sono rimasti, è arrivato l’imponderabile. Una coppa europea, la prima della storia nell’ambito Uefa, la prima in assoluto visto che la Conference League non l’aveva ancora mai vinta nessuno. Anche per questo José Mourinho ci teneva: essere il primo a mettere il suo nome su quel trofeo. Ma non era l’unico. Ci teneva Lorenzo Pellegrini, che quando Totti sollevò l’ultimo trofeo, la Coppa Italia, doveva ancora finire le scuole medie: faceva il raccattapalle, a volte, e magari sognava di emularlo.
Un gol: tanto è bastato. E fa sorridere, perché Roma negli anni ha fatto papi allenatori che l’avevano inebriata con l’idea di un calcio propositivo, ma poi per vincere ha pensato prima di tutto a trasformare l’Arena Kombetare in un ring: il terreno migliore per le squadre di José, che nel corpo a corpo studiato, strategico, ha costruito una fortuna inesauribile. E forse è anche questo che ha riavvicinato la gente a questa squadra, riempiendo stadi per una stagione intera anche contro le ultime in classifica: la sensazione che sia disposta a combattere per i propri obiettivi.
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