(La Repubblica-M.Crosetti)Sarà anche d’argento, ma forse non è una buona stella. Spetta, o spetterebbe (previa richiesta in Lega, una semplice formalità) alla società capace di vincere dieci Coppe Italia: Roma e Juventus sono ferme a nove. Dunque, nell’incrocio di domani all’Olimpico, esiste un possibile orizzonte grafico appena più lontano (siamo pur sempre e solo ai quarti di finale): lo rappresenta, appunto, questo piccolo segno, questa minuscola chimera a cinque punte. Che non sia una buona stella, se non proprio una iattura, lo dimostra il fatto che in quasi un secolo sia sfuggita a tutti, che la Juve l’abbia vista svanire due volte di recente (finale 2012 contro il Napoli, semifinale 2013 contro la Lazio) e che la Roma l’abbia mancata a maggio, perdendo la finale che poi era anche un derby, di peggio niente. Nel web già giravano giochi grafici con la coccarda della Coppa Italia sulla maglia giallorossa e la stellina appena sopra, un abbraccio mortale.
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La stella d’argento
(La Repubblica-M.Crosetti) Sarà anche d’argento, ma forse non è una buona stella. Spetta, o spetterebbe (previa richiesta in Lega, una semplice formalità) alla società capace di vincere dieci Coppe Italia: Roma e Juventus sono ferme a nove.
E non è un caso che, adesso, nessuno voglia parlare della stella d’argento, un po’ come per il terribile Voldemort di Harry Potter, tu sai chi, anzi tu sai cosa, ma guai chiamarli per nome. Questa è anche una storia araldica, in perfetta sintonia con il gusto tutto italiano per stemmi e scudi, probabile retaggio cavalleresco e medievale. Nessuno al mondo, a parte gli americani che hanno una specie di stemma del campionato, possiede ad esempio lo scudetto: lo inventò nientemeno che Gabriele D’Annunzio nel 1924, perché fosse apposto sulla divisa della selezione del Comando Militare Italiano per una partita amichevole. Il triangolo tricolore piacque, e dalla stagione successiva sarebbe rimasto sul petto dei campioni d’Italia. Siccome la Juventus fu il primo club a vincerne dieci, nel 1958 venne premiata dal Coni con la stella al merito sportivo: l’allora presidente Umberto Agnelli, il papà di Andrea, propose alla Lega di poter cucire quella stellina sulla maglia, e il Consiglio federale - con delibera 3 maggio 1958 - diede il permesso e avviò la consuetudine. Tre squadre portano, anzi porterebbero la stella d’oro: Inter (dal ’66), Milan (dal ’79) e appunto Juventus, che cucì la seconda nell’82 e poi la terza nel 2012: ma Calciopoli tolse due titoli ai bianconeri (2005 e 2006), i quali com’è noto decisero di avviare una contabilità parallela ma non di cucire la terza stella. Anzi, via pure le altre due, per protesta, ed è quasi impossibile che tornino in caso di scudetto a maggio, il trentesimo ufficiale, trentaduesimo “sul campo”.
Anche per una questione di coerenza, la pacificazione aritmetica sembra tutt’altro che prossima: mettere l’eventuale terza stella dorata a luglio, significherebbe ammettere che fino a quest’anno non se ne aveva il diritto, dunque che gli scudetti erano effettivamente meno di trenta. Nel tempo, la maglia è diventata anche un linguaggio, un modo per dire quello che si è e quanto si è vinto. Una specie di almanacco parlante, non solo nel calcio: ogni campione del mondo di ciclismo può tenere sul colletto e sulle maniche un bordino d’iride. In mezza Europa esistono le stelle degli scudetti, una ogni dieci quasi ovunque, dalla Francia al Portogallo, dalla Romania al Belgio, dall’Austria alla Turchia, dalla Svizzera alla Svezia, con l’anomalia tedesca dove la stella arriva al terzo, al quinto, al decimo e al ventesimo titolo, infatti il Bayern Monaco ne ha quattro pur avendo vinto “solo” 23 campionati. Da parte loro, i francesi dell’OM si sono stampati un’autonoma stella dal ’93, dopo la Coppa dei Campioni tolta al Milan, mentre il Manchester United e il Liverpool hanno deciso di stellarsi la maglia per ricordare i trionfi europei, il Liverpool lo ha fatto dopo la squalifica per la strage dell’Heysel, il Manchester dalla stagione 1999-2000: in fatto di segni e simboli, pare che l’autogestione funzioni.
Esiste un intero firmamento anche per le nazionali. Cominciò il Brasile, con la terza Coppa Rimet nel 1970 e relative tre stelle, seguito dall’Italia nell’82 e dalla Germania nel ’90. Nel 1998, la Fifa ha deciso che ogni vincitore mondiale può mettere una stella sulla casacca, non essendo più necessario arrivare a tre, anche se l’Uruguay largheggia di suo: quattro stelle, due per i mondiali e due per le Olimpiadi. Un po’ come Danimarca e Grecia, che si appuntarono la stella in modo autonomo dopo i successi agli Europei. Quasi una deriva simbolica, visto che a pioggia sono poi arrivati i “badge”: quello dell’Uefa per chi abbia vinto tre Champions consecutive o cinque complessive (si chiama Multiple-winner badge, si mette sulla manica, è un ovale grigio col numero delle vittorie inscritto), quello per il mondiale per club (dorato e marchiato Fifa), quello valoriale dell’Uefa (la scritta Respect, cioè rispetto, voluta da Platini), oppure il fantasmagorico simbolo del Milan, “Il club più titolato al mondo”, dove quest’anno sarebbe forse il caso di sostituire titolato con tribolato. Per non parlare delle epigrafi ricamate sul colletto della Juve: “Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta” (G. Boniperti), presente l’anno scorso, e “Fino alla fine” (A. Agnelli), che dalla prossima stagione ornerà la divisa e che è stata scelta con un sondaggio tra i tifosi. Oggi, invece, di stampato c’è solo l’anno della fondazione, 1897. Molta varietà, dunque, anche se i nostri scudi e le nostre coccarde (quella della Coppa Italia, antico simbolo della Rivoluzione francese, esiste dal ’58, dopo la vittoria della Lazio) rappresentano qualcosa di diverso. Oltre all’eleganza del segno, possiedono una decisa carica simbolica, non solo grafica. Sono marchi, ma di più sono pezzettini d’orgoglio cucito su stoffa. Volendo esagerare, la maglia della Juventus 2014- 2015 potrebbe teoricamente ospitare l’intero campionario: scudetto, coccarda, tre stelle d’oro e una stella d’argento. Cioè l’altra stella, la più misteriosa, quella che nessuno riesce a vedere neppure nelle notti più limpide.
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