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De Rossi, ultima scena. La partita più difficile è preparare un addio

LaPresse

In una società professionistica entrate ed uscite, anche umane, dovrebbero avere protocolli collaudati. E non essere pratiche sporche da sbrigare all’ultimo, in una contrattazione affannosa, nell’imbarazzo di chi lascia e di chi è lasciato

Redazione

L’ultimo protagonista di un’Italia bella e vincente lascia la Serie A. Daniele De Rossi, 36 anni, 18 stagioni con la Roma, 1.192 minuti in campo in A nel 2018-2019, campione del mondo a Berlino 2006. L’ultimo azzurro di una generazione che ha giocato sempre nella stessa casa e che fatica a farsi da parte. Ma perché nello sport è così difficile la cerimonia degli addii? In una società professionistica entrate ed uscite, anche umane, dovrebbero avere protocolli collaudati. E non essere pratiche sporche da sbrigare all’ultimo, in una contrattazione affannosa, nell’imbarazzo di chi lascia e di chi è lasciato. E non sa come dirlo. È la sindrome di Dorian Gray ad ostacolare la civiltà del grande addio? Ma è anche difficile trovare altri scivoli perché un atleta, soprattutto quello di successo, non pensa mai al dopo, né è allenato a farlo. Nessuno si o ti prepara a quel momento, a quel taglio, a quella improvvisa invisibilità. Non è affare della società sportiva preoccuparsi se un dio del pallone non ha più la forza di dire messa. In più non essendo i campioni dei nullatenenti al pubblico non interessa cosa faranno nel futuro e se riusciranno a ricollocarsi. Anzi, diciamo pure che dopo l’amore, l’emozione, la commozione, non c’è pietà: hanno guadagnato molto, sono dei privilegiati, che se la sbrighino loro. E più sono grandi vecchi, più il club li vive come potenziali nemici. Hanno in mano il cuore della città, ne hanno interpretato il battito, sanno come farlo pulsare. Non tutti sono Buffon o TottiDe Rossi o Barzagli, forse qualcuno lo diventerà, ma tutti un giorno dovranno separarsi dal gioco e forse anche dall’essere stati bandiera e simbolo della loro città. Per passare dal grande tutto al grande niente. Perché nulla rimpiazza quel tipo di energica felicità. Quella fine avverrà in un gelo di tristezza, rinfacciandosi vigliaccherie e passi falsi, o con un’accettazione più serena e meno drammatica che col tempo tutto se ne va e che iniziare a parlare di «dopo», magari su strade non più allineate, non è una colpa da nascondere, ma una realtà da affrontare con eleganza, senza brutali silenzi? È difficile continuare a riempire una bella vita. In Australia al campione che lascia si affianca un team, che lo invita a tenere un diario, a riprendere gli studi, a mantenersi in forma fisica, a trovare dieta e nuovi interessi, e a piacersi. L’Aic, l’associazione italiana calciatori, ha inaugurato corsi di formazione e di laurea per il post-carriera, e molti di quelli che la frequentano, racconta il presidente Damiano Tommasi, confessano: «Ci avessi pensato prima». Fare il dio che tramonta non è per tutti. La professione campione ha una scadenza. Saremo tutti De Rossi nell’ultima partita, ma sarebbe ora che lo sport italiano provasse a giocare anche fuori dal campo.