rassegna stampa roma

Curva chiusa e il peso dei silenzi

Il black out comunicativo della Roma, interrotto dalle parole di Pallotta arrivate dopo ben 36 ore, fa i conti ora con la severità del provvedimento della Figc, sempre molto attenta a cogliere l'aria che tira

Redazione

Sbagli e paghi, lo dice la legge. Niente tifosi in curva, se i tifosi sono questi, sciò, a casa. Tutti, certo, anche quelli che non c'entrano niente, che in sud vanno per vedersi la partita come piace a loro, urlando e saltando e tifando, perché in curva la partita si vive di più, il biglietto costa di meno, si va da sempre e con gli amici di sempre, si fa così insomma. Niente, a casa, sciò pure voi che stavate intorno a quella gente che ha partorito prima e mostrato con orgoglio poi quei pensierini così profondi sulla mamma di Ciro e su De Santis, uno di loro.La legge è dura, si sbaglia e si paga. La Roma pensa e dice che la legge è applicata male, che questa punizione è troppo perché punisce gli innocenti e lascia fare i colpevoli, affonda nell'impotenza dei club in balia di dieci, cento teppisti che tutto possono, alla faccia della farsesca pretesa di fermarli con ragazzini sottopagati chiamati steward come gli energici e supergarantiti colleghi che in Inghilterra hanno risolto il problema. La Roma dice: noi all'Olimpico non possiamo fare niente, quando avremo uno stadio nostro vedrete. Però per adesso abbiamo visto e contato lunghissime ore di silenzio, un giorno e mezzo di parole negate, quelle con cui il club avrebbe potuto e dovuto scavare subito un solco definitivo con la gentaglia che ne sta rovinando la tanto invocata immagine internazionale. Lo stesso rumoroso silenzio con cui, d'altra parte, la Roma aveva commentato (perché anche i silenzi sono un modo per esprimersi) la gogna in eurovisione cui erano stati sottoposti i suoi giocatori dopo l'eliminazione dall'Europa League, pretesa e ottenuta dalla stessa gente che ora ha fatto chiudere la curva. Un silenzio sciagurato perché figlio di mille timori e mille opportunismi, comuni peraltro a quasi tutti i club italiani: gli ultrà sono clienti fedeli, gli unici rimasti a riempire la loro porzione di stadio, vanno dunque gestiti come tali, non vanno mai perduti, neppure quando sono cattivi.Il black out comunicativo della Roma, interrotto dalle parole di Pallotta arrivate dopo ben 36 ore, fa i conti ora con la severità del provvedimento della Figc, sempre molto attenta a cogliere l'aria che tira. Se la Roma avesse condannato subito, senza se e se ma, forse il club avrebbe goduto della clemenza che spetta a chi collabora per estirpare le oscenità dal calcio italiano, rivendicando di aver almeno provato a fare la propria parte. I dirigenti italiani del club non lo hanno fatto, aspettando invece che la sacrosanta indignazione nazionale debordasse e che la Federcalcio la assecondasse. Soltanto a cose fatte, chiusura delle curva inclusa, sono arrivate da Pallotta parole chiare e inequivocabili, definitive nella presa di distanza dalla parte malata del tifo. Ora la Roma farà ricorso, e le ragioni per evidenziare le contraddizioni tra questo verdetto e la clemenza utilizzata in passato dalla stessa Figc non mancheranno. Negli stadi italiani è entrato di tutto, in curva si è letto di tutto: inni a sciagure, invocazioni di terremoti e pestilenze, solidarietà con omicidi conclamati, istigazione a vendette, sfregi, leggi del taglione. Non sempre, anzi, quasi mai, i club ospitanti sono stati puniti con la prontezza toccata alla Roma. Perché la legge è dura, ma mica sempre. A volte è soffice, anzi, i morti invocati o disonorati possono valere una multa, un rimprovero, un buffetto, anche niente. Ma certo, se quella del calcio è una giustizia fatta così, a corrente alternata, sarebbe anche ora che la gente del calcio, tutta e sempre, avesse il coraggio di dire, come fatto in ritardo da Pallotta: chi non rispetta le vite, il dolore, la civiltà, a casa nostra non lo vogliamo più. Mai più.