Nessuno sa che cosa passi davvero, in questi giorni, per la testa e per il cuore di Francesco Totti. Ma che cosa stia passando per la testa e per il cuore nostri, di chi Francesco lo ha seguito ed amato da quando era il cucciolo di razza allevato prima da Carletto Mazzone, poi da Zdenek Zeman, questo sì, lo sappiamo. Raccontarlo senza cedere alla retorica delle cerimonie degli addii, parlando di sentimenti senza farsi trascinare dal sentimentalismo, non è facile.
rassegna stampa roma
L’ultimo Dei romani col mondo ai suoi piedi
Mentre i romani si crogiolavano nella loro diversità, Roma certo non cambiava. Invece Totti, o almeno la sua immagine, sì
Partiamo da un assunto. Francesco Totti è Roma. Non solo qui, ma in Italia e nel mondo. Ma c'è anche chi lo ha criticato: coccolato oltre ogni limite dai suoi cari e dalla sua gente, primo tra tutti il presidente Franco Sensi, per il quale era il figlio maschio che non aveva e avrebbe voluto. Incline alla protesta sguaiata o peggio (lo sputo a Poulsen, il calcio nel sedere a Balotelli) contro gli avversari e gli arbitri. Politicamente scorretto. E quindi giudicato quanto meno con sufficienza dai (cosiddetti) critici, e accolto da fischi e ululati in tutti gli stadi.
Confessiamolo. A noi, che, per dire, abbiamo anche acquistato e talvolta indossato sciarpe giallorosse con su scritto «Che Dio ve furmini», e intonato il coro «Un capitano, c’è solo un capitano», tutto questo non spiaceva affatto. Anzi, ci faceva identificare sempre più con lui, Checco nostro. «No Totti no party», si legge su uno striscione ormai classico, tuttora regolarmente esibito in casa e in trasferta. Il fatto è, però, che mentre noi ci crogiolavamo nella nostra diversità, Roma certo non cambiava. Invece Totti, o almeno la sua immagine, sì. Eccome. Senza perdere i suoi tratti distintivi, ma sprovincializzandoli, fino a renderli, grazie anche a un’autoironia lieve ma costante, in qualche modo universali.
Come può capitare soltanto a un campione enorme, ma soprattutto a un uomo intelligente che ha dato il meglio di sé in un tempo in cui il calcio è diventato un fenomeno mondiale, e si gioca nelle ore più impensate per garantire che la partita nelle plaghe più impensate sia vista da centinaia di milioni di persone, senza mai dimenticare (parola del grandissimo capitano del Liverpool Steven Gerrard) che «la sua felicità deriva dall’aver fatto felice la gente di Roma». Come può capitare a un campione enorme, ma soprattutto a uno stagionato ragazzo di Porta Metronia, che, quando gli chiedono cosa farà da oggi in poi, risponde leggiadro: «Andrò a pesca», e a chi gli ricorda le parole di Maradona («Totti è il migliore che abbia visto in vita mia»), replica sornione: «Ora posso anche smettere». Chissà cosa farai da grande, Francesco.
È una storia lunga, questa della (apparente) transustanziazione di Totti, che ha un passaggio chiave, il rifiuto di lasciare la Roma per vestire la maglia del Real Madrid, e un suggello esemplare, l’ovazione del Santiago Bernabeu, tutti in piedi. Del resto, come disse Berlusconi a chi scrive: «Non è vero quello che scrivono, non cercherò di portare Totti al Milan. Lo vorrei moltissimo, si capisce, ma le bandiere non si comprano e non si vendono».
Non si comprano, non si vendono e, se è per questo, non si mettono nemmeno in naftalina. Non sono (non dovrebbero essere) un problema, sono (dovrebbero essere) una ricchezza, nel caso di Totti inaudita. Sarebbe stato bello che tutti se ne fossero ricordati, se ne ricordassero, cercassero di essere all’altezza. Non è andata così. Ma una storia come quella che abbiamo avuto e abbiamo con Francesco, «uno di noi», merita che di tutto questo, almeno qui, non si parli. Bandiera vecchia, onor di capitano.
Paolo Franchi
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