Ipad scintillante e sorriso dei giorni migliori, Luis Enrique aveva aperto ufficialmente la nuova era americana sulla panchina romanista: "Farò calcio spettacolo, voglio una Roma vincente", la dichiarazione d'intenti è di quelle che fanno sognare, sullo sfondo c'è il Barcellona e la promessa di divertimento assoluto. La realtà, ovviamente, riserva ben altro alle ambizioni dello spagnolo e alla passione dei tifosi: partita dopo partita il nulla si impossessa del campionato giallorosso, il disagio del tecnico è certificato dall'involuzione nei pensieri e nelle parole. Ad agosto le prime contestazioni, dopo lo Slovan: "Non devo dare spiegazioni a nessuno", in riferimento a Totti e alle scelte che valgono l'eliminazione.
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Il campionato si muove tra alti e bassi, dopo la sconfitta interna con il Milan l'allenatore non si nasconde: "Non siamo una squadra, punto. La colpa magari è mia, forse ho sbagliato formazione...", poche cose vanno per il verso giusto, nonostante il sostegno di parte della tifoseria ("Mai schiavi del risultato" in Sud per Roma-Lecce), a dicembre già si parla di addio. "Mi dispiace per i tifosi ma sento che la squadra è ancora con me. Altrimenti mi dimetterei", dopo la sconfitta di Firenze arrivano alcuni risultati incoraggianti, l'apoteosi a Bologna: "Siamo stati bellissimi, visto che mangerò il panettone?".
Cambia l'anno, le minime certezze romaniste si sbriciolano quasi subito: "Ho visto delle cose patetiche", a febbraio Luis Enrique comincia a mostrare evidenti segni di cedimento, dopo l'umiliazione di Bergamo (4-1 con De Rossi spedito in tribuna per un ritardo alla riunione tecnica) e la sconfitta nel derby ("Cosa ho fatto per meritare questa merda?") il cerchio si chiude intorno al tecnico. "Serve uno psicoterapeuta", pensieri post Juventus che accompagnano l'agonia del finale di stagione: "Sono stanco, ecco perché lascio la Roma. Questa è una piazza fantastica ma ha bisogno di più aiuto...".
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