Aleksandar Kolarov apre le sue porte e si racconta. Prima di volare in Russia per partecipare al Mondiale, il terzino della Roma ha parlato di sé in una lunga chiacchierata con 'The Players Tribune', raccontando la sua vita a partire dall'infanzia passata con la sua famiglia sotto i bombardamenti di Belgrado. Il passaggio alla Lazio, gli anni importanti al Manchester City, il ritorno a Roma e la sua Serbia: ecco tutto Kolarov a 360°.
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“Io, la guerra, il City, Roma e la Serbia”: ecco Kolarov, il ragazzo che voleva essere Mihajlovic
Il terzino della Roma si racconta a 360°, partendo dalla sua infanzia sotto le bombe di Belgrado: "Ancora oggi riesco a sentire quel rumore terribile. Ho sempre voluto di più: quel desiderio e il mio orgoglio non mi hanno mai abbandonato"
"C’è un rumore specifico… riesco ancora a sentirlo oggi se chiudo gli occhi. Non erano le sirene che eravamo abituati a sentire. Era diverso, un lamento. Sembrava più qualcosa di proveniente da un film. In un certo modo, era terribile. Io e i miei amici abbiamo fatto retromarcia con le nostre bici e abbiamo iniziato a correre verso casa velocemente. Eravamo a pochi isolati dalla nostra via quando abbiamo sentito un nuovo rumore, una grande esplosione, abbiamo rivolto lo sguardo verso il cielo… e abbiamo visto un aereo cadere verso il suolo. Da lì usciva fuoco e fumo nero. È passato attraverso le nuvole, dietro gli alberi, e poi non c’era più.
Era un aereo militare, abbattuto sopra Belgrado, non lontano da casa mia. Questa era la vita in Serbia negli ultimi anni ’90. Sono tornato a casa e sono rimasto in camera mia per ore, provando a capire cosa avevo appena visto. La guerra non andava avanti da tanto. Quando è iniziata ero anche contento, perché non capivo molto. Capivo solo che la scuola era chiusa e che avrei potuto passare più tempo con i miei amici o con un pallone tra i piedi.
Ricordo la notte in cui le prime bombe sono cadute. Avevo 14 anni. Io e mio fratello Nikola eravamo con mia madre in salone. Lei stava guardando una soap opera spagnola, non ne perdeva nemmeno una puntata. Avevamo soltanto una televisione, perciò stavamo lì con lei, in silenzio, confusi su quello che stavamo vedendo. Poi il cancello fuori la porta di casa ha iniziato a muoversi. Ancora e ancora e ancora. Non avevo idea di cosa stesse succedendo. Dopo lo abbiamo scoperto dalla tv: Belgrado era stata bombardata.
Non abbiamo lasciato casa per i primi 2 giorni. Abbiamo provato a dormire tra l’eco delle esplosioni lontane pochi chilometri, i rumori degli aerei, gli incubi. Ricordo solo tanta confusione per quello che stava succedendo, probabilmente perché ero giovanissimo. Nessuno sapeva cosa fare nella nostra città. Era un posto piccolo, tutti conoscevano tutti. Con il passare del tempo, i negozi hanno riaperto e noi abbiamo provato ad andare avanti con la vita di tutti i giorni. Cosa altro avremmo dovuto fare? Ma era… strano. Mi mancava la scuola. Avevo troppo tempo libero, una cosa che non pensavo di poter dire.
Mio padre era un commesso di un negozio, mia madre lavorava in una piccola azienda locale. Io e mio fratello avevamo la casa tutta per noi. Passavamo le giornate in cortile, con un pallone e il nostro cancello di legno. Era la nostra porta. Era un po’ fragile, ma c’era quella parte… all’angolino in alto a sinistra, era un punto in cui il pallone faceva un rumore pazzesco. Per noi era divertente perché quando lo colpivamo i vicini si affacciavano alla finestra per urlarci contro. “Quei maledetti ragazzini stanno giocando ancora a pallone!”. Ogni volta che ho tirato un calcio di punizione lì, il mio obiettivo era quello di farmi urlare contro dai miei vicini. Così sapevo di aver tirato veramente bene. Ancora e ancora… rincorsa, piede sinistro e punizione. Bang.
Volevo essere Sinisa Mihajlovic. Lui sapeva fare quel ‘bang’. Giocava nel centrocampo della Stella Rossa, il più importante club di Belgrado. Loro erano… leggende, anche di più. Nel 1991 avevano vinto la Coppa dei Campioni prima che diventasse Champions League. Avevo solo 6 anni, ma quello è stato un grandissimo momento per lo sport nel nostro Paese. Già allora c’erano diversi disordini politici e confusione, e stare nella nostra città non era facile. E vederli vincere nella migliore competizione del mondo era una cosa immensa. Erano calciatori come noi, che sono cresciuti come abbiamo fatto noi, e hanno avuto successo. Mentre io e mio fratello crescevamo, e la guerra diventava una grande parte della nostra vita, abbiamo capito che il calcio era un’opportunità che non avremmo potuto sprecare. Ci spingevamo a vicenda, ci davamo battaglia. Io ero competitivo, forse troppo. Ricordo un giorno quando eravamo a casa da soli, stavamo discutendo su chi fosse il più forte di noi. Perciò abbiamo avuto questa idea: correre uno da un lato della stanza, l’altro dall’altra, saltare in aria e - come se stessimo colpendo un pallone di testa - vedere chi avrebbe buttato l’altro giù. Ora che lo dico ad alta voce… suona molto stupido. Ma eravamo soltanto adolescenti! Era un rito di passaggio.
Ci siamo messi ai lati opposti della stanza, come in uno di quei vecchi film di John Wayne o qualcosa del genere. Dodici passi! Poi siamo corsi l’uno contro l’altro e… l’ho distrutto. È volato in aria e quando è caduto a terra ha iniziato a urlare. “Chiama papà! Chiama papà!”. “Stai bene, alzati!”. “CHIAMA PAPA’!”. Mio padre è arrivato e abbiamo mentito. Gli abbiamo detto che Nikola era caduto a terra. Non ha funzionato. Mio padre lo ha portato all’ospedale: si era rotto la clavicola. È stato complicato cercare di spiegare alle infermiere come era successo. Queste sono le battaglie che mi hanno reso più duro. Volevo solo migliorare ancora di più nel calcio. Vedendo quello che era stato possibile nel 1991 con la Stella Rossa, vedere il mio Paese cadere nella disperazione… volevo di più. Quel desiderio non mi ha mai abbandonato.
Quando giocavo col Cukaricki - un altro club di Belgrado - nel 2004, c’è stato un momento a cui penso ancora oggi. Giocavo con la loro Primavera in Olanda e abbiamo conquistato una vittoria inaspettata. Subito dopo, hanno promosso me e altri 5 giocatori in prima squadra durante la corsa alla promozione. Nel nostro primo allenamento, la squadra aveva già 23 calciatori, l’allenatore non era felice di averci. Ci ha fatto correre. “Fate 5 giri nella foresta, non tornare finché non avete finito”. Erano giri lunghi. Ricordo il caldo e la stanchezza. Dopo 4 giri, uno di noi ha suggerito di fermarci dove eravamo, perché nessuno ci stava vedendo. Gli altri erano d’accordo, ma io non capivo. Non ero arrivato fin là per non seguire le istruzioni. Ho corso quell’ultimo giro al massimo. Ho finito senza che nessuno mi vedesse. Sono quasi svenuto. Non ho corso quel quinto giro per farmi vedere dai miei compagni o dall’allenatore. L’ho fatto per me. Questo è ciò che sono. Se mai faranno un film su di me, includete questa scena, grazie.
Mi sono trasferito alla Lazio pochi anni dopo, nel 2007. È stata la prima volta in cui ho avuto la possibilità di supportare la mia famiglia dal punto di vista finanziario, una cosa importantissima per me. Non ho pensato al trasferimento come un grande successo, o nulla della genere. Pensavo soltanto che stavo iniziando. Dovevo lottare per ottenere un ruolo importante nella squadra. Ho imparato molto a Roma, e in quel periodo sono stato chiamato dalla nazionale. Ma ricordavo una promessa che avevo fatto a mia madre quando avevo 12 anni. Le dissi che un giorno avrei giocato nella Premier League inglese. E sapevo che un giorno ci sarei arrivato.
L’opportunità è arrivata da Manchester. Il City stava costruendo qualcosa di grande, e la Premier League era il campionato più importante di tutti in quel momento. E soprattutto, era un’opportunità per migliorare. Quell’estate, prima di accordarmi col City, ho giocato con la Serbia nel Mondiale in Sud Africa. Mi consideravo un calciatore egoista, ma per la prima volta ho capito che stavo giocando per qualcosa di molto più grande della squadra e di me stesso. Mi sentivo quasi un soldato. Avevo la responsabilità di portare addosso la bandiera e la divisa delle persone che erano a casa. Noi serbi siamo persone orgogliose, e so da cosa proviene quest’orgoglio. Abbiamo passato cose che la maggior parte degli Paesi nemmeno possono immaginare, e quando abbiamo una chance di farci vedere dal mondo… facciamo del nostro meglio per essere come siamo: lottatori.
I risultati non sono stati dei migliori, ma non dimenticherò mai quella vittoria per 1-0 contro la Germania. È stato rassicurante per dimostrare che siamo una nazione calcistica. Quel torneo, nonostante siamo usciti ai gironi, mi ha dato fiducia per andare a Manchester. Il tempo che ho passato al City è stato uno dei periodi più belli della mia vita. Ho vinto due Premier League, una FC Cup, due coppe di lega. Non dimenticherò mai nulla di tutto ciò. Il momento migliore? Tutti ricordano dove erano quando sentirono “Agueroooooooooooooo!”. Un momento che avremo per sempre.
Onestamente, ancora considero il City il mio club. Qualche mese fa, quando i Citizens erano vicini al titolo, io e Dzeko stavamo vedendo Manchester United-West Brom mentre eravamo sul nostro pullman per andare a giocare una partita. Lo United perse, ed è stato divertente visto che il West Brom era ultimo in classifica… Manchester era di nuovo blu. È stato un bel momento per noi. Ricorderò quei tifosi per sempre, il club ha un posto speciale nel mio cuore.
Ora sono tornato a Roma, e sembra di essere un po' tornato nel 2010. Mi sto preparando a rappresentare la Serbia in un altro Mondiale, con mia moglie Vesna e i nostri due bambini, che rimarranno in Italia a vedere. I miei genitori sono ancora in Serbia e non verranno in Russia perché… beh, perché non glielo permetto. Mia madre è stata a 4 mie gare e ho sempre perso, quindi le è stato proibito. E mio padre si innervosisce e fuma 5 sigarette a partita. Deve stare a casa.
Ma io sarò lì, e la Serbia ci sarà. Ricordo ancora il dolore provato per essere usciti al girone 8 anni fa, non voglio provarlo di nuovo. Ora ho la fascia da capitano e sento la responsabilità di essere il leader di cui abbiamo bisogno, quello che sognavo di essere. Penso che avremo possibilità perché siamo sottovalutati. Probabilmente non avete idea di cosa aspettarvi da noi, giusto? Noi siamo così. Probabilmente non sapete quanto è creativo Milinkovic-Savic, o quanto è talentoso Dusan Tadic. E va bene così. Faremo del nostro meglio per metterci in mostra. Aspettavamo quest’opportunità di rappresentare la Serbia da tanto. Molti dei giocatori nella nostra squadra ricordano la guerra, le bombe, le sirene. Sappiamo quanto ha sofferto il Paese per essere qui. Ed è uscita da quel conflitto con grande sollievo, opportunità e una grande generazione di calciatori. Siamo tutti parte di questo, tutti ricordiamo. E ora avremo la nostra opportunità".
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