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Fonseca: “Con i giocatori sono diretto, ma non è facile per loro accettare la mia verità”

Getty Images

Queste le parole del tecnico romanista: ''La società non ha mai scelto un calciatore senza la mia opinione''

Redazione

Parola a Paulo Fonseca. Il tecnico giallorosso ha parlato a Dazn in un'intervista condotta dall'ex romanista FedericoBalzaretti, nella rubrica Balza incontra Fonseca, che sarà disponibile da oggi sull'app in vista della gara di domenica con il Parma (trasmesso sempre da Dazn). Questa un'anticipazione del dialogo tra i due:

FONSECA A DAZN

Quando è scattata la scintilla per diventare allenatore e ha capito che era il suo percorso?


A 28-29 anni ho iniziato, ho avuto anche gli allenatori che mi hanno aperto gli occhi, ho cominciato a vedere la preparazione alle partite, gli allenamenti, in un modo diverso. Ho avuto Jean-Paul che poi ha lavorato anche nella formazione di Cristiano Ronaldo. Con lui ho parlato molto, poi è nata la passione per conoscere tutto, l’attenzione ai dettagli. Guardavo molto Capello, ma da quando ho iniziato a fare l’allenatore fino a oggi il principale riferimento è Guardiola. Ho guardato anche Mourinho, lui ha cambiato il modo di vedere la leadership.

Come entra in un gruppo nuovo?


Ricordo che una delle parole che ho usato è ambizione, se siamo a Roma dobbiamo giocare sempre per vincere. Nella leadership è molto importante la verità, sono sempre molto diretto con i miei giocatori ed è molto importante.

La credibilità con i giocatori è importante


Però a volte non è facile per i giocatori accettare la mia verità. Ma è meglio accettare la chiarezza e la verità, perché io non rinuncio a essere sempre vero con i miei giocatori.

Capello diceva ai giocatori che le regole erano uguali per tutti

Per me anche. Le regole sono uguali per tutti, poi ci sono persone diverse, diverse personalità ed è importante capirlo. Io so che se urlo con qualcuno in campo, con Mancini è il modo giusto, ma magari se devo incoraggiare qualcun altro, ad esempio Spinazzola, devo farlo diversamente. E poi ci sono altre situazioni, ci sono giocatori a cui non ho bisogno di dire niente, e devo lasciarli continuare. Anche per dire qualcosa di positivo, il feedback è farlo giocare, dargli continuità perché credo in lui.

L’equilibrio sulla comunicazione è importante

Sì, soprattutto qui. Il messaggio che voglio trasmettere è sempre di equilibrio. Qui si vincono 2-3 partite e tutti parlano di scudetto, se perdiamo siamo la squadra peggiore del mondo. Bisogna cercare di non far entrare nel gruppo la pressione e anche l’euforia. Abbiamo parlato molto in questi mesi, emotivamente la squadra è più equilibrata.

Non si porta a casa un po’ di stress?

No, non sono una persona che pensa 24 ore su 24 al calcio. Ricordo che all’inizio ero un po’ preoccupato per quello che faceva la squadra. Mia moglie è andata in Ucraina, io sono stato 15 giorni a Trigoria chiuso in camera a vedere di trovare una soluzione. Ma poi in altri momenti non voglio pensare al calcio. A casa magari mi capita di vedere delle partite, ma poi penso ‘No, non voglio vedere la partita ma un film’.

Molto sottile il confine tra identità e strategia: è difficile la comunicazione con giocatori per dirgli di mantenere la stessa cosa ma con una strategia diversa?


No, non penso sia difficile. Se prepariamo una strategia molto diversa rispetto ai principi di gioco e l’identità allora è difficile. Non possiamo cambiare tanto, è la mia opinione. La squadra ha una identità in tutto, ma la strategia non può cambiare questa identità. Sono piccoli adattamenti.

Sulla differenza nell’uscita col pallone dalla difesa: importante andare a occupare anche gli spazi per uscire, come fatto da Cristante in un frangente contro il Milan

Ora posso parlarne perché non giochiamo più col Milan. Abbiamo visto che Fazio e Mancini erano sempre soli, perché quando la palla si trova su un lato, chi deve chiudere lo spazio è il terzino opposto per poi giocare sull'altro lato. Qui abbiamo sbagliato diverse volte in questa fase della partita. Non abbiamo capito che la pressione del Milan non era molto forte. A sinistra abbiamo avuto sempre Fazio o Spinazzola, a destra sempre Karsdorp e Mancini con la possibilità di portare palla senza grande pressione. L’intenzione di cambiare sull’altra fascia non c’è stata sempre nel modo giusto. È una cosa importante, noi vogliamo cercare lo spazio. Quando le altre squadre sono organizzate, dobbiamo attrarle in una fascia per poi andare a giocare dall’altra parte. Penso che abbiamo avuto la possibilità di farlo.

Cosa le piace vedere della sua squadra come principi di gioco?


A me piace sempre che la squadra abbia iniziativa, che abbia la palla. Quando sono arrivato qui in Italia il possesso palla era un’ossessione per me, ora per noi è più importante la fase di transizione, curiamo molto la parte video.

Le differenze con la costruzione del gioco e l’utilizzo dei centrocampisti rispetto all’anno scorso. Nell’esempio Lazio-Roma, il ritorno dello scorso anno, con quattro giocatori a occuparsi della costruzione e gli altri sei di quella di sviluppo dell’azione.

E’ stata una partita molto difficile, ma aperta. Giocavamo a quattro in quel periodo, l’intenzione era sempre la stessa, creare una linea di tre con il centrocampista. L’intenzione è la stessa, ma creata con giocatori diversi. Cristante lo scorso anno si abbassava sulla linea dei difensori per costruire, più o meno la stessa cosa che fa anche ora.

Perché era ossessionato dal possesso palla?

Per tutto, è anche il migliore modo per difendere. Mi piace la sensazione di controllare la partita, è anche un modo per mettere sotto stress l’avversario, ma qui in Italia non è facile come da altre parti. Le squadre si trovano bene senza palla. Ad esempio l’Inter è una squadra che non ha problemi ad abbassare le linee, sono molto forti in questo ma non posso dire lo stesso della mia squadra. La mia squadra quando non ha la palla non si trova a suo agio.

Se si accorgesse di avere una squadra che è a proprio agio a difendere bassa e stare sotto la linea della palla, snaturerebbe la sua idea di calcio?


Sì.

Ci sono allenatori che dicono di voler come prima cosa mettere a loro agio i loro giocatori in particolare negli ultimi 25 metri, poi se la risolvono loro. Lei ci lavora molto sugli ultimi 25 metri?


Molto. Bisogna avere un equilibrio nella circolazione, nel cercare lo spazio sul lungo e in appoggio. Ed è difficile, sono i giocatori a dover capire dove prendere lo spazio e non io a comandarli. Abbiamo imparato che quando arriviamo al momento di finalizzare, è importante l’inserimento di Veretout in seconda linea, soprattutto contro una linea a cinque giocatori. E’ difficile da leggere per le difese, anche per noi, ma Veretout è molto bravo a leggere queste cose e capire il momento in cui deve andare.

Entra nelle scelte del club a livello di mercato?


Mai hanno scelto un giocatore senza la mia opinione. Ho un attimo rapporto con Tiago Pinto, non solo perché è portoghese. Noi con il presidente parliamo sempre delle opportunità sui calciatori. Non ho mai detto ad esempio che Under non è un grande giocatore. Lui è un grande giocatore, ma per la mia idea è difficile per lui. Però sicuramente sarà perfetto per un allenatore che gioca diversamente.

Fa autocritica?


Molto, sono molto esigente con me stesso, più che con gli altri. Sono sempre molto ansioso quando la gestione ce l’hanno gli altri. Devo migliorare questo aspetto.

Un consiglio che darebbe a un allenatore nuovo ed emergente?


La cosa principale per essere un allenatore secondo me è avere passione. Svegliarsi, voler sempre andare all’allenamento, migliorarsi, non possiamo mai perdere questa passione. L’adrenalina prima della partita è quasi come una droga.

 LaPresse

FONSECA A FORBES ITALIA

Portogallo, Ucraina e ora Italia. Lei ha gestito, tra le diverse squadre che ha allenato, anche tre importanti club come Porto, Shakhtar Donetsk e ora Roma. Come è cambiato, se è cambiato, il suo lavoro in queste differenti realtà?

Ovviamente le cose cambiano. Cambia il contesto competitivo, cambia il nostro modo di adattarci, anche per questioni culturali, anche se Portogallo e Italia, essendo Paesi latini, hanno un modo di vivere, di sentire e di amare il calcio molto simile. L’Ucraina è un Paese diverso, con una mentalità diversa, ma alla quale mi sono adattato molto bene. Noi allenatori dobbiamo capire rapidamente che lavorando in Paesi diversi, si lavora anche con modi diversi di vedere la nostra professione, di viverla, di criticarla o anche di valorizzarla.

Prima calciatore, poi allenatore… come è cambiata la sua vita con questo passaggio? Quale dei due ruoli le piace di più e perché?

La responsabilità del ruolo di allenatore è totalmente diversa da quella di un giocatore. Prima mi allenavo e non mi preoccupavo di altro, ora no. Passiamo molte ore a pensare, a realizzare, a progettare, ma devo dire che mi piace molto di più fare l’allenatore, piuttosto che fare il calciatore. È un piacere e una soddisfazione incomparabile con quella di quando ero giocatore.

Quali devono essere secondo lei le doti di un buon manager? La leadership è una dote innata o si può costruire?

Per me, per essere un buon manager è fondamentale essere vero, onesto, entusiasta oltre a essere un grande motivatore. Per dirigere un gruppo di lavoro serve anche una grande capacità di adattamento. Perché la nostra leadership deve essere adattata secondo le caratteristiche delle persone che guidiamo, gli obiettivi del team e gli obiettivi da raggiungere. Per un allenatore è importante avere delle caratteristiche di un leader forte, ma la leadership si può anche lavorare.

Nel corso della sua attività avrà sicuramente vissuto situazioni complicate a livello manageriale. Quali sono state e come le ha affrontate?

Il conflitto è sempre difficile, le questioni disciplinari sono sempre complicate. Altra questione è quando le persone che guidi non sono tutte nella stessa direzione. Su questi problemi bisogna essere rapidi e intervenire con forza, non possiamo chiudere gli occhi di fronte ai problemi. Poi, quando non sono tutti in linea con il resto del team ci sono diversi modi di agire e dipende molto dalla personalità della persona stessa, dal peso che la persona ha nel gruppo di lavoro. Ci sono diversi modi di agire a seconda delle caratteristiche delle persone.

Quando ha iniziato la sua carriera da allenatore quali obiettivi si è posto?

Quando si inizia – e io ho iniziato dalla gavetta – l’obiettivo principale è quello di raggiungere le squadre migliori del tuo Paese, nel mio caso del Portogallo, e in seguito raggiungere le migliori squadre in Europa. Posso dire che ora ho già raggiunto una delle migliori squadre d’Europa, ma voglio vincere dei titoli: voglio vincere dei campionati in Europa, voglio vincere dei titoli europei. Nonostante questa ambizione, il mio obiettivo principale è quello di non perdere mai la passione per questa professione, svegliarmi ogni giorno motivato e continuare a essere lo stesso allenatore entusiasta e appassionato.

Qual è la dote umana e manageriale di cui va più orgoglioso? Cosa cambierebbe invece del suo carattere?

Posso dire che mi sento molto bene con me stesso perché provo a essere sempre giusto ed equilibrato. Credo che la questione dell’equilibrio sia fondamentale per avere successo. Cosa cambierei? Penso che siamo tutti diversi, anch’io ho i miei pregi e difetti. E che tutti noi, nella vita, dovremmo cercare sempre di migliorare, ma se cambiamo qualcosa nel nostro carattere, dobbiamo stare attenti: se smettiamo di essere noi stessi, rischiamo di perdere la nostra identità.

Quando non allena cosa le piace fare?

In alcuni momenti mi piace staccare e amo, soprattutto, passare il tempo libero con mia moglie, i miei figli, passeggiare con loro in riva al mare, andare in un buon ristorante e camminare nel centro di Roma. E devo confessare che sono anch’io un amante di Netflix, soprattutto quando sono in viaggio e in trasferta.

Forbes non parla principalmente di calcio ma si rivolge ai manager e agli imprenditori. Secondo lei un allenatore che insegnamenti può dare a chi ricopre un ruolo manageriale, anche se non calcistico?

Un consiglio che posso dare a un leader, che sia nello sport o che sia in un’azienda, è che se vuoi guidare un gruppo, motivarlo e fare arrivare i messaggi alle persone, devi farlo con onestà. Penso che essere sempre veri sia fondamentale: solo così le persone ti rispetteranno di più. Un’altra caratteristica importante credo che sia il saper ascoltare. Ovviamente dovremo prendere sempre le nostre decisioni sulla base di ciò in cui crediamo, ma saper ascoltare gli altri è molto importante per la nostra crescita.