Edin Dzeko, attaccante della Roma, in un articolo del "ThePlayersTribune.com" intitolato "You are not dead" (Tu non sei morto) racconta la sua storia da calciatore e non solo. Dal Manchester City, all'esperienza in giallorosso fino all'avventura in Bundesliga. Senza dimenticare il passato in Bosnia.
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Dzeko: “Solo a Roma mi sento a casa. Avrei voluto giocare di più con Totti”
Il centravanti bosniaco aggiunge: "Con il Barca abbiamo avuto il nostro momento QPR. Eravamo morti e poi siamo resuscitati"
MANCHESTER CITY - Il ricordo comincia con la gara storica tra Citizens e Qpr: "Eravamo morti. Questo è tutto ciò che stavo pensando mentre guardavo quella partita dalla panchina. Prima della partita, pensavamo tutti che il Manchester City sarebbe stato campione. Sapevamo che il QPR stava combattendo per la retrocessione, ma ci sentivamo forti. Tutto ciò che dovevamo fare era batterli, e avremmo vinto la Premier League. Nessuno ha creduto di poter perdere il titolo. Avevamo tutto nelle nostre mani. Quindi la partita inizia e tutto è tranquillo, poi bang - 39 minuti, Zabaleta segna. È 1-0 all'intervallo. Quasi comincio a rilassarmi, pensando: "Siamo quasi arrivati". Quindi il QPR pareggia dopo tre minuti nel secondo tempo. Assolutamente inaspettato. Poi viene espulso uno dei loro sette minuti dopo. E poi ancora, in qualche modo, segnano un secondo gol. Succede tutto in 18 minuti. Bang bang bang. È stato pazzesco. Ricordo che poco dopo il loro secondo gol Roberto Mancini era a bordo campo, furioso con tutti, gridando solamente "Vaffa****o! Dai! Vaffa****o!". Non so nemmeno con chi stesse parlando, stava solo imprecando".
Edin Dzeko continua: "Pensavo fossimo morti. Era come se nessuno potesse sopportare la pressione. Pensavamo tutti di esserci fatti scappare l'occasione. Dopo una grande stagione, avremmo perso tutto in una partita. Alla fine, Mancini mi mette in campo, e continuiamo a fare del nostro meglio, ma non succede nulla. Il calcio è così a volte. La palla finisce sempre dalla parte sbagliata del palo. Ottantanovesimo minuto, novantesimo minuto... Siamo morti. Arriva il recupero, e penso che abbiamo cinque minuti in più. Se giochi a calcio sulla tua PlayStation e perdi 2-1 dopo 91 minuti, non ottieni mai la vittoria. È finita. Vai avanti e provaci subito, ora. Impossibile. Quindi l'angolo. David Silva lo batte. Ho segnato quel gol: colpo di testa al minuto 91:20. Puoi vedermi urlare "Dai, dai!" a tutti, mentre corro di nuovo verso il cerchio di centrocampo. Ancora due, tre minuti da giocare. Forse non siamo ancora morti? Quindi conosci il resto della storia. Non so come l'abbiamo fatto. C'era sicuramente qualcuno da lassù che ci ha dato la possibilità di sopravvivere. La gente mi chiede tutto il tempo del gol di Aguero, e cosa si prova ad essere sul campo. Per essere onesto con te, l'emozione più forte era solo il sollievo. Non puoi immaginare quanto mi sentissi sollevato quando è stato segnato quel gol. Abbiamo lavorato per tutta la stagione con una squadra così grande e ci siamo comportati così bene, eppure siamo stati a pochi secondi dal perdere tutto. Il primo titolo della città dopo 44 anni, vinto in questo modo? Pazzo. Quella partita mi ha mostrato che nel calcio e nella vita non puoi mai mollare. Se ti arrendi, sei un uomo morto. Eravamo morti e siamo venuti fuori inaspettatamente".
Una menzione speciale anche per i compagni di squadra: "Parte della gioia che ne ricavo è ricordare gli altri che sono diventati campioni con me. Aguero, Silva, Yaya, Kompany e, naturalmente, Mario Balotelli, che era davvero un bravo ragazzo. A volte i media lo uccidevano per niente, e io non lo capivo. Era come se fosse il protagonista di un film - tutto bene o tutto male, era sempre Mario. Ma era un tipo molto divertente, ed era un campione. Ho avuto anche la fortuna di avere Kolarov e Savic, due ragazzi cresciuti nei Balcani, come me. C'è un orgoglio speciale nel farcela in Premier League e diventare un campione quando vieni da dove veniamo. Dovete ricordare che sono nato a Sarajevo negli anni '80. Durante la guerra, c'erano volte in cui dovevo smettere di giocare a calcio nelle strade perché partivano le sirene e dovevamo nasconderci.
Da piccolo, non capisci davvero il pericolo. A sei anni, sapevo cosa stava succedendo, ma sinceramente non ci pensavo molto. I genitori si occupano di tutto ciò che richiede pensiero e preoccupazione. Sono quelli che portano molto del peso, penso. Senza i miei genitori, la mia vita non sarebbe stata possibile. Quando la guerra finalmente finì quattro anni dopo, tutto fu distrutto. Non c'era più una città. Ricordo che mio padre mi portò al mio primo allenamento a Željezničar e dovemmo prendere due autobus e un tram. Ci voleva più di un'ora per arrivarci, e ci stavamo allenando in un liceo perché lo stadio del club era stato distrutto. Anche se mio padre lavorava, mi portava lì ogni giorno e, quando l'allenamento era finito, mi portava sempre una banana.
INFANZIA E BOSNIA - Il centravanti bosniaco riflette anche sull'importanza della famiglia e sulla sua terra: "Anche nei momenti difficili, i miei genitori hanno cercato di dare tutto a me e mia sorella. Ognuno ha i propri sogni. Ma a quei tempi, quando il paese veniva ricostruito, era impossibile pensare a qualcosa di più. Mi ricordo solo di essere stato felice di poter giocare a calcio davvero, per la prima volta senza sirene o pericolo, o altro. Nessuna complicazione. Solo il calcio. Se avevo un sogno, era quello di giocare per la squadra maggiore del Željezničar . E questo soprattutto per rendere orgoglioso mio padre, perché non è mai stato professionista, ma ha giocato per tutta la sua vita. Mi ricordo quando avevo 17 anni, ero con lui nel centro commerciale. Un giorno normale. Non riesco a ricordare cosa stessimo comprando. Improvvisamente, la chiamata arriva da uno dei miei allenatori. Dice: "Domani, stai andando con la prima squadra alla preparazione pre-stagionale".
A 32 Dzeko, però, ancora non si arrende e vuole regalare altre gioie al suo Paese: "Non sono sicuro di cosa succederà dopo. Mi piacerebbe sicuramente portare la Bosnia ad un altro torneo internazionale. Ero così orgoglioso di dare un po' di felicità al mio paese nel 2014. Immagina, la prima volta che la Bosnia è arrivata a una Coppa del Mondo, abbiamo fatto il nostro debutto al Maracanã contro l'Argentina. Era come se il sogno si fosse avverato. Se solo fossimo riusciti a impedire a Messi di segnare! Dopo quella Coppa del Mondo penso fermamente che qualcosa sia cambiato a casa. Quando ero un ragazzino cresciuto in Bosnia, i nostri idoli nel calcio erano sempre giocatori di diversi paesi. Ma ora torno a Sarajevo e, sempre di più, i ragazzi parlano di giocatori bosniaci - specialmente ragazzi come Miralem Pjanic - e questo mi rende davvero felice. Dopo la guerra eravamo una generazione di bambini con sogni semplici. Volevamo solo giocare in pace a calcio. Ora ho il mio calcio e ho trovato la mia pace. È la mia vita. Voglio giocare e guardare tutti le partite che posso, sul serio. A volte mia moglie mi sorprende nel nostro salotto a guardare la Serie A o la Premier League o qualcosa in televisione, e lei chiederà: "Ne hai abbastanza del calcio?".
ROMA - Quattro stagioni fa l'arrivo nella Capitale. I tifosi a Fiumicino e le notti di Champions, una su tutte, quella con il Barcellona, indimenticabili. "È divertente - dice Dzeko - ho giocato a calcio in molti paesi ora, ma è solo a Roma che mi sono sentito come se fossi a casa. Bosnia e Sarajevo saranno sempre al primo posto nel mio cuore, ma Roma è un buon secondo posto. La casa per me è un posto dove mi sento bene, dove posso pensare al calcio, dove non ci sono altri problemi e dove la mia famiglia è felice. Volevo andare in Serie A, così avrei potuto imparare la lingua, e ora ho costruito qualcosa di veramente bello qui. Le persone mi chiedono sempre la differenza tra giocare in Inghilterra e giocare in Italia. L'Inghilterra è velocità, velocità, velocità. Qui ci sono tattiche, tattiche, tattiche. È incredibile quanto ho imparato in tre anni in Serie A. Pensano a ogni piccolo dettaglio qui. Ma la cosa più sorprendente per me è che posso chiamare una leggenda come Francesco Totti, mio amico. E gli dico tutto il tempo che vorrei essere venuto qui un po' prima nella mia carriera, perché mi avrebbe aiutato a segnare tanti più goal! Giocare alcune stagioni con lui ha migliorato il mio gioco in maniera massiccia. Ha visto tutto sul campo e ha giocato palle che mi hanno spostato nello spazio che non avevo nemmeno considerato. Sono così felice di essere venuto in Italia e qui ho imparato molto sul calcio.
Un'ultima battuta sulla notte magica dell'Olimpico contro il Barca: "Abbiamo avuto il nostro "Momento QPR" in Champions League la scorsa stagione. Quel quarto di finale contro il Barcellona è stato uno di quei match di cui è possibile mostrare in seguito il nastro ai ragazzi e dire: "Guarda, guarda questa partita, e vedrai che non puoi mai mollare". Nella partita di andata perdemmo 4-1. E perdere 4-1 contro il Barcellona ti porta di nuovo lì, a guardare un campo da calcio, pensando che sei morto. Ma poi, con il ritorno in casa, sono un po' fortunato e riesco a segnare il primo gol molto presto, forse al quinto o sesto minuto. La folla inizia a darci energia. Poi prendiamo il rigore nel secondo tempo. De Rossi calcia e tira nell'angolino in fondo a destra. Il portiere riesce anche a metterci una mano, ma De Rossi colpisce il pallone con tanta forza da farcela comunque. Hai quella sensazione nel tuo sangue, tipo, forse sì? Possiamo? Stavamo correndo, giocavamo come animali, dando tutto ciò che avevamo. Proprio come nel 2012, in campo stiamo urlando, "Andiamo! Dai! Dai!". Poi, alla fine, all'82', Manolas segna il terzo gol. Incredibile. Ho visto la partita il mattino dopo, e sembrava che avremmo potuto segnare cinque o sei gol facilmente. È strano dirlo quando stai giocando contro il Barcellona, ma non è stato un miracolo. Non avevano davvero molte possibilità. Da parte nostra è stato un calcio da maestri. Siamo stati tatticamente perfetti. Eravamo morti, e poi siamo tornati alla vita. Può succedere a Manchester e a Roma. Può succedere ovunque. Questo è il calcio".
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