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Alberto De Rossi: “Essere fedele per 29 anni alla Roma è stato semplice”

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Le parole dell'ex allenatore della Roma Primavera: "Trigoria per me è come una seconda casa, non l'ho mai considerata un posto di lavoro"

Redazione

Alberto De Rossi ha rilasciato un'intervista a Roma TV nella quale ha parlato della sua lunga avventura sulla panchina della Primavera. Ecco le sue parole:

"Trigoria per me è come una seconda casa, non l'ho mai considerata un posto di lavoro e ho un rapporto bellissimo con tutti qui dentro. Non ho mai varcato il cancello di Trigoria malvolentieri. Ricordo perfettamente il primo giorno, i momenti precedenti all'incontro con Agnolin e le emozioni forti quando mi dissero che mi avevano preso. Fu una gioia immensa, che ricordo come se fosse adesso. Essere fedele per 29 anni allo stesso club mi sembra una cosa abbastanza semplice, per me lo è stato: oltre alla passione per il lavoro, per la professionalità, è l'attaccamento al club che fa la differenza, per questo superi tante difficoltà. Il legame tra me e la Roma, tra me e il club fa la differenza. Il legame è molto forte e questo fa passare tutto in secondo ordine, anche richieste di altri club e soluzioni lavorative, anche forse più remunerative. Questo fa la differenza e mi ha portato a rimanere per tutti questi anni qui".

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"L'obiettivo principale non è il risultato, il piazzamento o vincere un trofeo, ma portare giocatori in prima squadra. Tutte le nostre energie le convogliamo verso questo. C'è chi utilizza il settore giovanile per crescere come allenatore e poi iniziare la carriera negli adulti. Quello che stiamo facendo qui è far crescere i ragazzi, che è quello che vuole il club. Non c'è partita o trofeo che possa portarci fuori da questo obiettivoC'è chi riesce a farlo e chi non riesce, chi pensa alla propria carriera e chi pensa alla carriera dei ragazzi. Lo facciamo solo ed esclusivamente per la Roma. Ascoltiamo il nostro club, mi sembra semplice. Noi siamo qui per lavorare e lo facciamo con amore, ma dobbiamo dare anche una risposta professionale al nostro club. Ogni volta che un ragazzo debutta in prima squadra, c'è l'emozione del momento e poi la preoccupazione che faccia qualche errore e per finire la gioia di sentirsi utile al club e aver fatto qualcosa per il ragazzo".

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"Ogni volta che un ragazzo debutta in prima squadra c'è l'emozione del momento, poi la preoccupazione che faccia qualche errore e infine la gioia di sentirsi utile al club e di aver fatto qualcosa per il ragazzo. Già ci emozioniamo quando un nostro ragazzo riesce ad entrare all'Olimpico. Quando abbiamo visto la formazione iniziale della Nazionale, dove c'erano 5 nostri giocatori, siamo tornati indietro nel tempo. Sembrava la nostra Primavera, la soddisfazione è stata enormeNon mi definisco un secondo padre perché è una cosa abbastanza forte ed ho sempre detto di non aver mai voluto sostituirmi ai genitori, ma una guida per fare in modo che questo gioco diventi un posto di lavoro sì. Non mi piace molto la figura dell'educatore, ma quando dobbiamo farlo necessariamente interveniamo. Non mi piace imporre le cose, condivido anche gli allenamenti con i ragazzi. L'imposizione non porta a niente. Ho avuto tante dimostrazioni di affetto e di condivisioni di quello di cui parlavo quando avevo i ragazzi. Però sono cose troppe personali, non mi va di entrare nel particolare e nella loro vita".

Un pensiero al figlio Daniele, ex capitano della Roma: "Lui bandiera sì, io mi sento un onesto lavoratore. È stato molto semplice: ognuno ha fatto il proprio lavoro, ha rispettato gli spazi dell'altro e nessuno ha parlato dell'altro perché poteva sicuramente dare adito a chiacchiere e lo abbiamo subito messo in chiaro tutti e due. Dal momento in cui Daniele è entrato qui dentro, anche quando non era un calciatore di livello, le due strade dovevamo essere parallele. In passato ho avuto la possibilità per ben tre volte di allenare la prima squadra ed è vero che ho rifiutato proprio perché Daniele faceva parte di questo gruppo. Sono sicuro ancora adesso che gli avrei creato dei problemi, non so se piccoli o grandi, ma non mi sembra neanche di aver fatto qualcosa di particolare. È un po' banale dirlo, ma credo che un genitore debba risolvere i problemi al proprio figlio e non crearli. Sono sicuro che entrando in quello spogliatoio, anche vincendo tutte le partite, gliene potevo creare ed ecco perché ho sempre rifiutato. Tra i due è più romanista nettamente lui, per distacco: chiamarla fede da quando era piccolo mi sembra un po' forte, ma ricordo che non riuscivamo a togliergli mai il pallone e la maglietta della Roma. Così è stato nel prosieguo della sua vita".