rassegna stampa

La scuola italiana fa flop: il fallimento è anche tecnico

Nel flop della nazionale italiana, le cause da cercare non vanno tutte in una direzione, bensì molteplici.

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UN FLOP TOTALE: tre su tre. Tutti a casa, senza neppure assaporare il sapore degli ottavi. L’ennesima conferma, se ci pensate, che il calcio italiano non se la passa bene. Prima Cesare Prandelli, poi Alberto Zaccheroni e infine Fabio Capello: tutti eliminati al primo turno. Via l’Italia, via il Giappone e via anche la Russia. Un disastro. Tecnico e pure d’immagine: se Carlo Ancelotti non avesse vinto la Champions League (con il Real Madrid), il crollo tricolore sarebbe stato totale. Non era mai capitato che tre prodotti della scuola italiana partecipassero in contemporanea da commissari tecnici alla fase finale di un mondiale: il tetto si era fermato a due, per due volte. E anche in quelle circostanze i risultati furono da bollino rosso. Nel 1950, ad esempio, l’Italia guidata da Ferruccio Novo e la Bolivia che aveva in panchina Mario Pretto vennero cacciate al primo turno; così come nel 1966 l’Italia di Edmondo Fabbri e la Svizzera di Alfredo Foni. Un po’ meglio è andata, nell’edizione del 2002, al Paraguay di Cesare Maldini, arrivato fino agli ottavi come gli azzurri di Giovanni Trapattoni.

RIFLESSI D’EUROPA - Il mondo come l’Europa, dove il calcio italiano ormai conta poco o niente. La Juventus, che da tre anni domina la scena nazionale, in Champions riesce a malapena a partecipare. Questo vuol dire che i nostri allenatori valgono poco oppure che valgono poco le squadre che loro allenano? Se è vero che la fortuna di un tecnico la fanno i giocatori, la sintesi è che Balotelli, Honda e Akinfeev non valgono una lira. È la verità? Ma un allenatore è davvero bravo quando riesce a far vedere la propria la mano. E, salvo smentite, l’Italia, il Giappone e la Russia poco hanno mostrato del calcio di Prandelli, Zaccheroni e Capello. Si dice: ma fare l’allenatore di club è una cosa e farlo in un nazionale è un’altra completamente diversa, più complicata. Può darsi; anzi, è così. Ma questa non può essere una giustificazione, e di nessun genere. Perché per arrivare a giocare la fase finale di un mondiale il lavoro di preparazione e di avvicinamento deve essere quotidiano. Certo, un torneo non è un campionato, che ti permette di mostrare le tue carte a gioco lungo: nell’arco di tre partite devi fare tutto, senza sbagliare nulla. Non facile, non impossibile. Come stanno dimostrando i colleghi dei nostri tre ancora in Brasile.