«Per me Maracanà è stato il titolo del mondo e il passaporto per l’Italia». Alcides Ghiggia, l’uomo delle due patrie e delle due Nazionali - la Celeste per la sua nascita in Uruguay e l’Azzurra per l’origine torinese dei nonni paterni - s’è spento a ottantotto anni per un infarto e proprio nello stesso giorno in cui il 16 luglio 1950 aveva conquistato la sua vittoria più grande e il diritto a giocare a Roma nella Roma dopo aver battuto il Brasile in Brasile. «Ho visto un buco nella porta e ho tirato lì, più o meno la stessa rete che avrei fatto al portiere della Lazio, Lovati», raccontava e ancora mimava col gesto del piede la scena di quel 2 a 1 a dieci minuti dalla fine che l’avrebbe reso immortale in Uruguay, ammutolendo all’istante duecentomila spettatori “cariocas”.
rassegna stampa
Ghiggia l’eroe povero
S’è spento a ottantotto anni per un infarto e proprio nello stesso giorno in cui il 16 luglio 1950 aveva conquistato la sua vittoria più grande e il diritto a giocare a Roma nella Roma dopo aver battuto il Brasile in Brasile
IL MARACANAZO Nel mitico stadio di Rio de Janeiro essi già preparavano la festa da campioni del mondo. Invece fu un “Maracanazo” di lacrime e disperazione. Solo la messa del Papa (Wojtyla) e il concerto di Frank Sinatra furono seguiti con lo stesso silenzio, amava ripetere quest’ala destra d’altri tempi, piccoletto e indomabile come il suo gioco, dal volto ovale e dalla fronte alta, coi denti un po’ in fuori e i cappelli scuri, troppo scuri: forse l’unico vezzo di un mito del calcio all’antica, con quel nome che solo De Gasperi poteva portare e i baffetti ordinati a forma di trapezio da Clark Gable del campo.
CALCIO E PASSIONIDue i matrimoni come il numero dei figli e storie giovanili di donne (fu anche sorpreso in macchina con una minorenne a Roma e punito per lo scandalo) e di pallone, le passioni di una vita dolce che mai diventerà dolce vita. Ghiggia viveva di risparmi e dei lavori a cui fu costretto dopo il ritiro, come l’impiego presso i casinò municipali.
L’anti-divo abitava in un modesto monolocale a Las Piedras, paesino a mezz’ora dalla capitale Montevideo, «ma mi va bene così», diceva l’ultimo sopravvissuto di Maracanà. «Hanno scritto che per soldi mi sarei venduto le medaglie. Balle. Certo, in Italia guadagnavo bene. Ma oggi è dura per tutti».
ALCIDE L’ITALIANOIl suo destino italiano era segnato fin dalla squadra uruguaiana del cuore, il leggendario Peñarol, proclamato “la miglior squadra del secolo” da un organismo internazionale di statistica riconosciuto dalla Fifa, e la cui storia discende da Pinerolo. Anche Juan Alberto Schiaffino detto Pepe, l’altro uruguaiano-italiano che segnò il primo gol del pareggio al Maracanà, veniva dal Peñarol, il ponte sportivo dei sogni fra l’Atlantico e il Mediterraneo. «Ho indossato la maglia celeste e l’azzurra con lo stesso orgoglio», ricordava l’Alcide del calcio, tuffandosi nella memoria del suoi nove anni alla Roma dal 1953 (e poi una stagione al Milan e tra gli Azzurri in quegli anni). «La mia esperienza italiana fu bellissima», diceva. «Non avevo ancora firmato, ma già giocavo nelle amichevoli della Roma. Quando andavamo a bere dopo la partita, i miei compagni scherzavano per la mia giovane età, guarda lì, è arrivato il neonato».
Da allora ho imparato che, per campare bene, non bisogna farsi cattivo sangue e bisogna mangiare spaghetti…». Alcides Ghiggia, l’eroe tornato per sempre sul campo di Maracanà, sessantacinque anni dopo.
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