rassegna stampa roma

Umiliati

(Il Romanista – T.Cagnucci) «Tirate fuori le palle!». Ma ce l’hanno le palle i giocatori della Roma? Anche l’ultimo straordinario coro della Sud rischia di rimanere inascoltato.

Redazione

(Il Romanista - T.Cagnucci) «Tirate fuori le palle!». Ma ce l’hanno le palle i giocatori della Roma? Anche l’ultimo straordinario coro della Sud rischia di rimanere inascoltato.

Non basta quella camminata a testa china sotto la curva a dimostrare di avercele. E’ stato un gesto doveroso, una camminata finalmente umile a rendere omaggio all’unica cosa bella che ha questa Roma, che ha sempre avuto Roma: la sua gente che ieri ristava lì, rossa, pronta, convinta, innamorata, commossa nel ricordo di chi non c’era più, così piena di vita.

Stavolta davanti a tutto questo non può bastare nemmeno chiedere scusa. Non basta mondarsi le colpe prendendosi un bagno di fischi, non servono questi gesti che più che grandi rischiano di passare per teatrali. Una grande ultima performance senza seguito, senza che nemmeno poi lo show must go on, tanto per familiarizzare con l’inglese. Somigliano tanto all’1-0 di ieri della Roma, un gol che "non ti pare vero", un qualcosa di estemporaneo, un picco emotivo, una casualità, quasi un’isteria che ti fa perdere la testa in quaranta secondi, propria di chi non ha costrutto, non ha centro, non sa dove vuole andare: non ha mai voluto essere felice. Che sia una presa di coscienza quella camminata verso i fischi occhi a terra lo devono dimostrare i signori giocatori della Roma da adesso in poi. Perché la Roma deve ancora giocare, perché c’è un campionato da onorare, c’è un derby da vincere, c’è una Coppa Italia da vincere, c’è la dignità da andarsi a prendere.

E’ un obbligo, non una possibilità. Ma chi ci crede più? È dall’inizio dell’anno che si racconta ’sta tiritera che a questo punto rischia pure di passare per una presa in giro.

Questa specie di viaggio dal centrocampo al cuore sembra appena il riconoscimento della sconfitta, la facilità di alzare bandiera bianca, la rassegnazione. Come le parole dell’allenatore a fine partita: «Della squadra sono soddisfatto»; «Pazienza»; fino a paragonare lo Shakhtar al Barcellona.

Lo Shakhtar è una signora squadra che ha passato gli ultimi due mesi, più o meno, a giocare a Dubai, non è il Barcellona e forse non è nemmeno il Napoli che ci ha ridimensionato sabato. E quando Ranieri, che certo non è l’esclusivo responsabile (se non altro per il gusto di non dare l’ennesimo alibi a una squadra che un anno e mezzo fa s’era comportata allo stesso modo con Spalletti) dice che «la squadra all’inizio ha fatto tutto quello che doveva fare», le palle - a chi ce le ha - cascano davvero. Ma che davvero? Davvero questa Roma qua non può andare oltre a un 2-3 con lo Shakhtar? No, ma finora è stato così. Il tempo degli appelli e degli ultimatun sembra definitivamente passato. Ieri è sembrata la fine di un gruppo, di un tecnico, di quel che resta di una società che sta per essere venduta. Il canto del cigno di una squadra che dovrebbe essere fatta da lupi.

A Donetsk uno ci va come a Lourdes quasi in attesa di un miracolo, ma se non dovesse andar bene da quelle parti i giocatori potrebbero restare qualche giorno: è terra di miniere. Tornateci sotto la Curva Sud la prossima volta, ma fate in modo che sia a testa alta. Stavolta non basta più nemmeno chiedere scusa. C’è scritto pure sui baci perugina che l’amore non è chiedersi scusa. E la Roma quello è.