(Il Romanista - L.Pelosi) «Dove le squadre hanno una storia, i Boston Celtics hanno una religione». Parola di Bob Ryan, forse la penna più autorevole di Boston in fatto di sport.
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Pallotta e l'orgoglio di essere Boston Celtics
(Il Romanista – L.Pelosi) «Dove le squadre hanno una storia, i Boston Celtics hanno una religione». Parola di Bob Ryan, forse la penna più autorevole di Boston in fatto di sport.
Non è un’esagerazione e guardando la storia della franchigia per cui ha tifato e di cui è co-proprietario James Pallotta, si può legittimamente sperare che gli americani alla guida della nuova Roma non faranno sparire i sentimenti. Perché vengono da Boston, non da un posto qualunque. Perché uno come James Pallotta , che ha visto Bill Russell dalla piccionaia, Larry Bird dalla tribuna e oggi vede Paul Pierce dal suo palco riservato, respira, sente, vive in ogni momento il Celtic Pride. L’orgoglio di essere un “Celtic”, qualcosa che era nell’aria fin dall’inizio e che nel tempo si è sedimentato tra i legni del parquet incrociato del Boston Garden. Già, per raccontare i Celtics bisogna per forza partire dal Boston Garden. I Celtics, ma in realtà tutta la Nba, sono nati grazie al tempio della squadra biancoverde. Costruito negli Anni 20 e ispirato al Madison Square Garden, con tribune molto verticali per fare in modo che il pubblico stesse il più vicino possibile al ring, ospitava soprattutto incontri di boxe. A un certo punto, però, i costi erano troppo alti e così Walter Brown, figlio di quel George che aveva inventato la maratona di Boston ed aveva in mano tutto lo sport della città, si accordò con altri proprietari di squadre e impianti per far nascere una nuova Lega professionistica. Siamo nel 1946, nasce la Nba. E nascono i Celtics, nome scelto in ossequio alla matrice culturale irlandese della città e ispirato agli Original Celtics, squadra che negli Anni 20 si esibiva a New York e si autoproclamava “Campione del mondo” (in effetti non perdeva mai).
Il Celtic Pride, insomma, si respira fin da subito. Anche se nei primi anni sono più le sconfitte che le vittorie. Queste cominciano ad arrivare quando Brown s’incontra con un giovane e ambizioso coach: Arnold Auerbach, detto “Red” per via dei capelli rossi ma soprattutto per il fuoco che portava dentro di sé. Qualcosa pronto a far germogliare il seme del Celtic Pride. Una conquista sociale, prima che sportiva: nel 1950 Auerbach ingaggia il primo giocatore di colore della Nba, che fino a quel momento era vietata ai neri. E’ Charles “Chuck” Cooper. La prendono malissimo soprattutto gli Harlem Globetrotters (che ovviamente non fanno parte della Lega), capendo che da quel momento in poi gli atleti neri avrebbero fatto la fortuna dello sport americano. Anni dopo, i bianchi avrebbero fatto la fortuna dei Celtics, ma c’è ancora un po’ di tempo. Questo è il tempo dei neri, che impongono fisicità e fantasia e fanno crescere la squadra. L’oro nero di Red Auerbach si chiama Bill Russell, che nel 1967 sarebbe diventato anche il primo coach di colore della Nba. Ha rifiutato l’offerta degli Harlem Globetrotters offeso del fatto che l’inviato della squadra non lo aveva neanche riconosciuto quando era andato a trovarlo a San Francisco. Arriva così il primo titolo per i Celtics, al termine di 7 partite contro i St. Louis Hawks, cioè la squadra cui Auerbach aveva soffiato Russell al draft. La gara decisiva finisce 125-123, dopo due tempi supplementari. E’ l’inizio della dinastia Celtics. Dal 1959 al 1966 arrivano 8 titoli consecutivi. Russell, re dei rimbalzi, ha al suo fianco Bob Cousy, mago degli assist, K.C. Jones, Bill Sharman, John Havlicek. L’ultimo titolo di Russell arriverà nel 1969, da giocatore- allenatore, due anni dopo aver preso il posto di Auerbach. Totale: 11 campionati vinti consecutivamente.
Nel frattempo, il padre dei Celtics, della Nba e dell’uguaglianza nello sport, Walter Brown, era morto per un infarto. Ma il seme del Celtic Pride era già stato piantato e Auerbach, che dopo ogni campionato vinto si siede in panchina da solo e si accende il sigaro, lo avrebbe innaffiato per tanti anni ancora. Da coach divenne general manager della prima squadra Nba a scegliere un afroamericano, la prima a schierare un quintetto di soli giocatori neri, la prima a ingaggiare un coach di colore. Senza "pride", peraltro, non si vincono partite come quella del 4 giugno 1976. Gara 5 di finale, al Boston Garden ci sono 15.320 spettatori che non sanno che stanno per assistere a al "Greatest Ever Game". La partita più bella di sempre della storia della Nba, vinta e persa dai biancoverdi almeno 5 o 6 volte, portata definitivamente a casa dopo tre supplementari, i canestri di uno dei pochi non usciti per falli, Glenn McDonald, 63 minuti di gioco effettivo, più di 4 ore sul parquet. Sì, la più bella di sempre. Arrivò il titolo, il secondo di un decennio non proprio felicissimo (l’altro fu vinto ne 1974).
E’ proprio Red Auerbach, dopo un decennio abbastanza difficile (due titoli, nel 1974 e nel 1976) a dare la sterzata. Per la prima volta, sceglie un coach non cresciuto nei Celtics, Bill Fitch. Ma, soprattutto, sceglie il giocatore giusto: Larry Bird, chiamato al draft del 1978 ma giunto ai Celtics solo nel 1979 dopo aver perso la finale Ncaa contro Michigan State di Magic Johnson e dopo una trattativa di 100 giorni. Non sapeva molto dei Celtics, sapeva solo di Bill Russell perché nel suo playground nell’Indiana quando si faceva "uno contro uno" uno faceva Russell e un altro faceva Chamberlain. «Tutto sommato, penso di essere sempre un contadino di French Lick», disse al motociclista che lo trovò la mattina dell’8 giugno, giorno della firma del contratto, che si era perso per le strade di Boston. L’impatto si vede subito. Nella prima stagione i Celtics dopo tanto tempo tornano a vincere la "Division". E quando Auerbach vede i festeggiamenti, s’infuria. «Qui non si festeggiano i titoli divisionali, si festeggiano i titoli NBA». Con il sigaro. Per accenderlo, però, bisogna attendere la stagione successiva e gli arrivi di Kevin McHale e Robert Parish (due capolavori di Auerbach al draft). Con i "big three", dove il terzo (ma primo) è chiaramente Larry Bird, e con altri campioni come Danny Ainge, Dennis Johnson e Bill Walton i biancoverdi vincono la Nba nel 1981, nel 1984 e nel 1986. Dopo Bill Fitch in panchina torna anche il "pride", quello di K.C. Jones. La rivalità con i Sixers prima, ma soprattutto con i Lakers poi, fa innamorare il mondo. In quegli anni, grazie a Magic e Bird, la Nba diventa una roba mondiale. I Boston Celtics ancora una volta diventano un simbolo. Dopo aver introdotto i neri nella Lega, dimostrano che anche un bianco che non salta «neanche un foglio di giornale», Larry Bird, può diventare il più bravo di tutti. Dimostrano che la tradizione, il sentimento, il «pride» non muoiono mai e così, dopo tanti anni senza successi, nel 2007-2008 tornano a vincere, battendo in finale proprio i Lakers.
La proprietà è cambiata, ora è della Boston Basketball Partners L.L.C., di cui fanno parte Wyc Grousbeck, H. Irving Grousbeck, Steve Pagliuca, Robert Epstein, Paul Edgerley, Glenn Hutchins e James Pallotta. Il "big three" è tutto nero: Paul Pierce, Kevin Garnett, Ray Allen al quale, prima dell’inizio della stagione, Bill Russell spiega che cosa significa essere un "Celtic". Significa sacrificio individuale per il bene collettivo, rispetto, tenacia, spirito guerriero, testa e cuore. Significa essere l’unica franchigia, assieme ai Knicks di New York, a non aver mai cambiato città. Significa essere stati gli ultimi ad avere le cheerleader e gli unici ad avere la maglietta ancora uguale a quella delle origini. Significa che anche se si distrugge il Boston Garden, si costruisce un altro Palasport e non solo lo si chiama comunque "Garden" (con una "TD" davanti, concessione alla banca che ha sponsorizzato i lavori), ma si rimette il parquet incrociato. Tra un po’ ci rimetteranno lo stesso del vecchio impianto. Red Auerbach non c’è più, ma in città c’è una statua che lo ritrae con il sigaro in mano. James Pallotta, quando la guarda, respira il "Celtic Pride". Non c’è business, senza sentimento.
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