rassegna stampa roma

La recita del maestro Zeman incanta San Siro

(La Repubblica-M.Crosetti) Il lancio per il secondo gol scucchiaiato da Osvaldo (Osvaldo è talmente Totti da segnare ormai come lui) è un filmato d’epoca a doppia velocità,

Redazione

(La Repubblica-M.Crosetti)Il lancio per il secondo gol scucchiaiato da Osvaldo (Osvaldo è talmente Totti da segnare ormai come lui) è un filmato d’epoca a doppia velocità, uno strappo di futuro che arriva da lontanissimo. Il capitano ragazzino («Abbiamo le carte in regola per un grande campionato») insieme all’allenatore con la pelle rugosa da indio, con l’espressione immobile da capoccione dell’Isola di Pasqua, insomma da Zeman: è tornato, può non piacere a chi lo odia, ma lui non fa mai niente di normale. E quando arriva, ci si diverte. A San Siro lascia il segno lanciando un ragazzino (Florenzi, gol), dando forzatamente spazio a Marquinho (gol) e facendo regredire magnificamente Totti nel gesto che l’ha reso celebre: l’assist (due su tre).

Zeman è talmente Zeman da abbattersi come una nemesi sul povero, giovane Stramaccioni che si dichiara un fan delle sue rughe, una per una. L’ha definito un maestro irripetibile e inimitabile, detto da lui che è romanista è più di un omaggio, è il riconoscimento - appunto - di un magistero. In effetti la Roma comincia proprio a essere zemaniana, per una volta solo nella metà giusta, dal centrocampo in su: la difesa non ha avuto bisogno di farsi elettrizzante, per quello c’era già l’Inter, ed è caduta solo per una carambola di Cassano: anche lui ha fatto parte di questa strana epopea travestita da partita, piena di incroci, Zeman che torna e vince, Totti che rinasce, Cassano che nel suo girovagare si ritrova di fronte un pezzo di passato, anche se stavolta il più passato sembra lui.

«Voglio ritmo e aggressività: possiamo mettere in difficoltà tanti. Ci siamo abituati a soffrire, commettiamo errori ma rimediamo. Noi non dobbiamo sognare, ma lavorare per far sognare gli altri». Zeman è talmente Zeman da avere provocato smottamenti nella difesa dell’Inter, voragini e ritardi, vuoti assoluti e vane rincorse. Forse, non facendolo neppure apposta, non del tutto. Il primo gol della Roma è un elogio della solitudine (segna Florenzi, ex allievo giallorosso di Stramaccioni, nemesi-bis), il secondo è una coltellata di Totti (lui il coltello, Osvaldo il cucchiaio sopra una tavola apparecchiata malissimo), il terzo è una sparizione di Silvestre, che pure era rimasto l’ultimo dei fantasmi a non scomparire, invece poi è evaporato tutto d’un colpo. Per dirla tutta, una lezione di calcio del vecchio tecnico al giovane, un film muto (è la silenziosa eloquenza di Zeman) ma a cadenze rapidissime, un po’ comica alla Ridolini (l’Inter, quando prova a difendersi) e un po’ kolossal d’azione, tutto ritmo sincopato. Nulla di prevedibile dentro la Roma, nulla che lasci indifferenti. Forse è proprio questa la forza del boemo, e della sua faccia di pietra erosa: lasciare un segno, sempre. Ferire, con le parole o con le frecce disegnate su una lavagna e poi scoccate sul campo. L’Inter, in mezzo a quella pioggia di dardi, pareva un San Sebastiano senza aureola.