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Il cuore e il destino del dolce Piermario

(La Repubblica – G. Mura) – Fermarsi un sabato e una domenica per un ragazzo che s’è fermato per sempre, su un campo di calcio, è un triste dovere.

Redazione

(La Repubblica - G. Mura) - Fermarsi un sabato e una domenica per un ragazzo che s’è fermato per sempre, su un campo di calcio, è un triste dovere.

Non credo ci sia molto da discutere sulla decisione della Federcalcio: è una scelta di rispetto, di sensibilità, di cuore. Udinese e Inter avevano già deciso di non giocare. A San Siro, con tutti i tifosi già dentro, è volato qualche fischio, ma anche la tribù del “devi morire” capirà, prima o poi.

Non aiuta a capire la moviola, che serve a scoprire il millimetrico fuorigioco o il rigore non concesso. Si vede il ragazzo cadere, cercare di rialzarsi e poi ricadere attutendo la caduta con le due braccia, come nelle flessioni, e a terra rimanere, con la faccia nell’erba. Definitivamente fuori dal gioco e da una vita fin troppo dura è andato Piermario Morosini, chiamato dai compagni Moro e Supermario, un gol solo tra i professionisti perché i gol li faceva segnare agli altri, da centrocampista coi piedi buoni. Un ragazzo dolce e sfortunatissimo: così l’ha ricordato Mino Favini, che di ragazzi all’Atalanta ne ha cresciuti e lanciati parecchi. Non succede spesso che, parlando di un atleta e soprattutto di un calciatore, si usi quest’aggettivo: dolce.

Ma è proprio una malinconica dolcezza che si trova nelle foto di Morosini, e non è presentimento, no, ma cognizione del dolore. Non ci può essere presentimento, a quell’età. Ma coscienza e cicatrici sì. Perché si ha voglia a dire che il fulmine non cade mai sullo stesso albero, che prima o poi il vento cambierà direzione. Morosini a 14 anni ha perso la madre, a 16 il padre, a 20 un fratello suicida. Ha diviso maglia e camera d’albergo con altri che sono diventati più famosi: Ranocchia, Marchisio, Cerci, De Silvestri, Isla. Altri che hanno fatto il grande salto, ma è un modo di dire.

Come giocare col cuore, buttare il cuore oltre l’ostacolo, prendersela a cuore, andare dove porta il cuore. “Tutti parlano del proprio cuore, nessuno parla col proprio cuore”, aveva scritto un poeta, Alfonso Gatto. Ecco, io credo che Morosini ci avesse parlato, che ci tenesse a fare esami approfonditi, perché di cuore era morto suo padre, e col cuore lui diceva, in un’intervista a un giornale di Livorno, che inseguiva il sogno di diventare un buon calciatore perché questo era anche il sogno dei genitori, e il loro se l’era caricato sulle spalle o nel cuore, o in valigia quando andava a Udine, a Bologna, a Vicenza, a Padova, a Reggio Calabria, perché si sa che è meglio fare esperienza giocando in B che fare panchina o tribuna in A.

Nulla e nessuno, neanche l’autopsia, ci sapranno dire cosa succede in un corpo sano e forse anche felice, la squadra stava vincendo, e lo trasforma in un morto da piangere. E per fortuna, nella disgrazia, che ai morti non si può fare la domanda più stupida e dunque più usata del mondo, quello sportivo in particolare: che cos’hai provato quando cadevi? Al pressing forse, o all’impressione di un pugno in petto, ma nessun avversario era vicino, o ad Anna, la sua ragazza, “la mia Annina sotto il cielo dell’Elba” come scriveva inviando la foto di loro due agli amici, a quelli che giocavano in A, quelli coi titoli in prima pagina che per lui ci sono solo se muore.

Il grande circo si ferma per un ragazzo morto la cui vita e morte sono lontanissime dall’immaginario collettivo. I miliardari pieni di bambole tv, di Rolex, di coca, quelli che si comprano e vendono le partite, quelli che per prima cosa si fanno la Ferrari. Non lo cancella, gli fa da silenziatore. Di cuori sono pieni gli stadi: bianconeri, granata, rossoneri, nerazzurri, giallorossi, biancolesti, azzurri, rosanero, viola, rossoblù, gialloblù. Nei cori dei tifosi sono vecchi, e battono. Quello di Muamba è rimasto fermo 78’ e se l’è cavata dopo 16 interventi del defibrillatore. Quello di Morosini s’è fermato una volta sola, forse era stanco per troppe cose, e non è più ripartito.

C’è chi dice che il cuore degli atleti, per gli sforzi che fanno, è più esposto, spesso ipertrofico. Ma la vita ci ha detto che di cuore muoiono obesi e fumatori, elettricisti e scrittori, banchieri e disoccupati. Forse è meglio essere fatalisti che affannarsi a cercare risposte, ché poi magari viene il batticuore. Ci sono morti che diventano di tutti e quella di Morosini lo è. Come nell’ultimo verso della Costruzione, una canzone che Chico Buarque de Hollanda scrisse nel ’71 per un muratore volato giù dall’impalcatura, “è morto contromano intralciando il sabato”. Al posto di questa rubrica uno spazio bianco e silenzioso sarebbe stato più giusto, ma è un lusso che nel nostro mestiere non ci si può permettere. Ti sia lieve la terra, Piermario Morosini detto Moro.