(Il Romanista - D.Giannini) - Che Pablo Daniel Osvaldo fosse un personaggio fuori dal comune i romanisti lo avevano capito da tempo, dal principio, da quando è arrivato nella Capitale. Non solo un grande calciatore appunto, ma personaggio, un ragazzo di carattere, di personalità, nel bene e nel male, con i suoi eccessi, con la sua impulsività, con il suo modo di vedere la vita. Un Osvaldo molto rock e per niente lento, tanto per capirsi. Ecco, c’è tutto quell’Osvaldo lì nell’intervista che l’attaccante giallorosso ha rilasciato alla rivista GQ e della quale sono uscite delle anticipazioni. Non parla di calcio giocato Osvaldo, fatta eccezione per una battuta col sorriso sulle labbra rispondendo alla domanda su come comunica con Zeman: «A gesti? No, non solo almeno. Parliamo». Eppure c’è tanto pallone nelle sue parole. Di come il calcio si lega alla sua vita, agli ideali, alla visione del mondo. Non si nasconde Osvaldo, non risponde con frasi di circostanza, dice la sua su temi scivolosi con dichiarazioni forti. Come quella sul calcioscommesse e sulla sua reazione nel caso in cui scoprisse un compagno venduto. «Ciò che succede nello spogliatoio deve restare lì - la sua risposta -. Io non faccio il delatore, ma non mi volto. In silenzio, lo ammazzo di botte». Parole che hanno fatto discutere immediatamente e nelle quali c’è molta della sua filosofia rock. Di un ragazzo che i problemi li prende di petto e prova a risolverli da solo. Ancora un tema scottante, quello dei gay nel calcio. Osvaldo spiega con fermezza:«Penso che la nostra società non è l’Alabama del ’50, ma sul tema siamo indietro. Un compagno gay in squadra? Non mi cambierebbe proprio niente. Sono persone libere, prima che calciatori».
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Osvaldo: «La mia normalità»
(Il Romanista – D.Giannini) – Che Pablo Daniel Osvaldo fosse un personaggio fuori dal comune i romanisti lo avevano capito da tempo, dal principio, da quando è arrivato nella Capitale.
Poi sul calcio italiano e sul rapporto tra i calciatori e i tifosi:«In Italia non c’è mai una via di mezzo. Un giorno sei da scudetto e quello dopo da rogo. La mancanza di equilibrio mi fa infuriare, però non posso farci niente. E non ho voglia di fare niente. Se il pubblico pagante ha tutti i diritti? Neanche per sogno. Io perdo una palla e tu mi vomiti addosso il tuo odio? Non è normale. E quindi se il tifoso sbaglia al lavoro posso andare a picchiarlo, gettargli una banana o dirgli che sua madre è una poco di buono? Bella logica».«Non è normale» dice Osvaldo. E non è la prima volta che Dani parla di normalità. Lo aveva già fatto qualche tempo fa con un "tweet" durante il ritiro con la Nazionale prima della partita con l’Armenia. La ricerca della normalità è molto presente nelle sue parole: «L’affetto della gente? Ogni tanto vorrei essere una persona qualsiasi. Andare in una piazza. Se è impossibile? In Italia sì. A Barcellona lo facevo, andavo in Plaça de Catalunya con un mio amico, lui faceva ritratti ai passanti, io suonavo la chitarra. Non mi riconoscevano. Era bello. È affascinante la semplicità. Cosa avrei fatto se non avessi giocato a calcio? Oggi potrei dire il musicista rock o blues, o lo scrittore. Scrivere mi piace. Poesie e canzoni. Ieri rispondevo: “Voglio giocare a calcio”. Sguardi storti: “E se non arrivi?”. E io duro: “Non esiste. Io arrivo”».
Tenero ma anche deciso Osvaldo, che descrive così la sua passione per Joaquín Sabina, rivoluzionario antifranchista, uno dei suoi artisti preferiti: «Una persona che per sostenere un’idea ha messo a rischio la sua vita. Un poeta. Un grande narratore. Ti restituisce l’illusione che parli proprio di te». Altri modelli? «Frédéric Beigbeder. Un nichilista che crede nel dogma della velocità. Se non siamo certi di vedere il domani, dice, è meglio correre». Poi sul suo arrivo in Italia, a Bergamo nel gennaio del 2006: «Il 12, compivo 20 anni. Un freddo cane, la neve, l’albergo in mezzo al nulla, circondato dai silos di Zingonia. Arrivato in camera, ho iniziato a piangere. Fu dura. Non c’era un solo argentino, uno straccio di uruguaiano. Ero lontanissimo da casa, i compagni ridevano tra loro. Parlavano una lingua che non capivo. Diventai un po’ paranoico. Pensavo ridessero di me. Poi andò meglio e mi integrai. Le parole ingannano? A volte non ne serve neanche una. Basta uno sguardo».
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