(Il Romanista - D.Galli) «La Roma? È un posto difficile, me lo avevano anticipato e l’ho subito visto con i miei occhi. Ho capito immediatamente che era necessario avere del carattere per allenarla».
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Garcia: «Questa Roma è la mia sfida fantastica»
(Il Romanista – D.Galli) «La Roma? È un posto difficile, me lo avevano anticipato e l’ho subito visto con i miei occhi. Ho capito immediatamente che era necessario avere del carattere per allenarla».
Oltre un’ora al centro di uno studio, quello dei francesi di beIN Sport. Per parlare di tutto in maniera franca, sincera, col cuore aperto, mentre a pochi metri dalla sua poltrona scorrono i riflessi filmati che raccontano la sua vita, il suo privato, il suo pubblico, la chitarra, il Lille e la Roma. La sua vita. Quella di Rudi Garcia.
Oltre un’ora per spiegare cosa lo ha spinto a venire quaggiù - leggi alla voce Sabatini («un uomo di carattere, che ti guarda negli occhi, che ti parla in modo molto schietto e onesto») - per ricordare il padre José («allenava tra i dilettanti, stava fuori tutto il weekend, da adolescente dicevo a me stesso che non avrei fatto il suo stesso mestiere»), per celebrare la figura del suo mentore, quel Robert Nouzaret che nell’88 lo volle da calciatore al Caen neopromosso e poi gli insegnò a fare tutto in un club. Al Saint-Etienne, dove approdò come suo vice, imparò l’arte di essere Rudi.
La maxi intervista è di qualche giorno fa, ma finora se ne conosceva solo una minima sintesi, figlia di qualche tweet. "Il Romanista" ve la propone oggi praticamente in maniera integrale. Ne emerge un ritratto autentico di Rudi Il Grande, l’Asterix che ha saputo conquistare l’Impero Romano, che predica prudenza ma intanto guadagna suo malgrado copertine, gli speciali de L’Equipe, le righe pregiate di France Football e lo spazio nel "Le Club du dimanche", la rubrica condotta da Alexandre Ruiz per beIN Sport.
Una cosa. La più bella. La testimonianza che adesso è davvero uno di noi. È romanista. Non la nomina mai, quella. La definisce «il nemico giurato, che è l’altra squadra della città». Ruiz insiste, lo tenta, gli chiede provocatoriamente - lo fa per scherzare - «se ne conosce il nome». Garcia risponde esattamente così: «È la squadra di cui non si pronuncia mai il nome».
Rudi, come è andata davvero per il suo arrivo alla Roma?
Ero in piena riflessione. Ero ancora del Lille per questa stagione e volevo sapere quale sarebbe stato il mio futuro alla luce del cambio in corsa del progetto societario, rispetto a quello che mi era stato presentato all’inizio. Poi la Roma si è fatta sentire, a Milano ho incontrato Walter Sabatini, il ds della Roma. Un uomo di carattere, che ti guarda negli occhi, che ti parla in modo molto schietto e onesto. Ed è stato un incontro interessante perché la sua prima frase è stata: "Ti abbiamo fatto venire a Milano - io ero infatti in ferie per alcuni giorni - ma non sarai tu il prescelto". Dunque era una bella sfida (ride, ndr), siamo rimasti due o tre ore a discutere, e poi alla fine, tre giorni dopo, sono dovuto volare a New York per incontrare il team del presidente della Roma, Pallotta - sì perché abbiamo da due stagioni una proprietà americana - poi le cose si sono accelerate. La Roma è un grande club europeo, un club che per me non ha vinto abbastanza, sono solo tre gli scudetti in vetrina, pur essendo la Capitale d’Italia. È un posto difficile, me lo avevano anticipato, l’ho subito visto con i miei occhi, ho capito immediatamente che era necessario avere del carattere per allenare la Roma. Ma è una sfida fantastica. La cosa più frustrante per me - debbo ammetterlo - è stata la lingua. Parlavo due parole d’italiano al mio arrivo... Ho trovato soprattutto un gruppo ferito. Questa cosa mi ha molto colpito. Poi abbiamo visto gli striscioni, alcuni pseudo-tifosi hanno insultato alcuni dei miei giocatori prima della partenza per il ritiro e lo hanno pure fatto a 700 chilometri da Roma, fino alla frontiera con l’Austria. Per prima cosa abbiamo dovuto proteggere i giocatori, poi ridare loro fiducia, e innanzitutto in loro stessi. Per esempio Federico Balzaretti, che ha segnato al derby. Poi sapevo che tutti erano irrequieti per il fatto di dover giocare il derby alla quarta giornata, anche in seno al club, ma per me era meglio così: avremmo voltato pagina al più presto. Ovvio che dovevamo vincere quella partita, ma ci siamo arrivati con tre successi di fila e 9 punti in tasca, che ci hanno aiutato molto. E questo ha permesso di cancellare un po’ quel terribile momento che la Roma aveva vissuto perdendo la Coppa Italia nella scorsa stagione, nel mese di maggio, contro il nemico giurato, che è l’altra squadra della città. Ecco, da quel momento le cose vanno bene.
Non ne conosce il nome? (l’intervistatore ride, ndr)
È la squadra di cui non si pronuncia mai il nome (ride anche Garcia, ndr).
Ok. Ho un altro piccolo video da mostrarle, Rudi (si vede Garcia che lancia dei cori verso i tifosi del Lille, come un capocurva, ndr). Ho fatto mettere queste immagini perché il passaggio al Lille rappresenta un punto importante della sua carriera di allenatore. Allora, a che punto è del suo cammino personale?
Non ho un piano per la carriera, è molto onesto da parte mia dirlo. Ho sempre lavorato nei miei club come se ci dovessi rimanere per sempre, ho fatto questo a Dijon, che ha dato inizio alla mia avventura come allenatore di prima squadra, e infatti ci sono rimasto 5 stagioni. L’ho fatto al Le Mans, ma lì sono stato un anno solo perché il Lille, il club dove sono cresciuto (come calciatore, ndr), è venuto a prendermi. Alcuni erano parecchio scettici al mio arrivo, perché secondo loro mi servivo di questo club come rampa di lancio... ma 5 anni segnano la storia di un uomo. Ho vissuto uno storico "double" (coppa e campionato di Francia, ndr) e delle cose incredibili, non solo con i miei giocatori, ma anche con i miei dirigenti, con il presidente Michel Seydoux. Cose che saranno incise per sempre nella storia del club e nella mia personale memoria. Ecco... poi... non avevo mai pensato di allenare un giorno in Italia e ancor meno la Roma, anche se avevo visitato la città 3 o 4 anni prima e mi ero detto che era veramente fantastica. Oggi poi l’avventura continua. Qualsiasi cosa accadrà alla fine di questastagione, sarà stata comunque un’esperienza che mi avrà arricchito personalmente. E sarà stata molto appassionante. Questo è sicuro.
Parlando di motivi personali e di cammini tracciati, ricordiamo un uomo, suo padre, che se n’è andato quasi cinque anni fa. José Garcia, allenatore, giocatore, Sedan, Dunkerque, grande personaggio del Corbeille-Essonnes... era tutto scritto per lei, Rudi?
Non credo. Vedevo papà fare questo mestiere, anche se a livello dilettantistico. È arrivato fino alla seconda divisione francese, cosa già molto buona. Ma io lo vedevo lavorare tutta la giornata (quasi certamente non nel calcio, ndr), la sera andava agli allenamenti e poi stava via tutto il fine settimana perché a quell’epoca si partiva in bus il giorno prima della partita e si tornava il giorno dopo. E io adolescente mi dicevo sempre che era un mestiere molto ingrato: quando vinci, sono i giocatori che vincono; quando perdi, è l’allenatore che perde. Mi ero proprio detto, per scappare da quel destino che era mio, e lo sapevo, che non avrei fatto questo mestiere.
Ma poi, ovviamente e logicamente, essendo caduto da piccolo nel pentolone (come Obelix, è un modo di dire francofono, ndr) faccio delle cose - oggi - che sono per lui, per mio padre.
Suo padre era malato per la bicicletta.
Sì, esatto. Ho un nome germanico come il campione tedesco (di ciclismo, ndr) Rudi Altig.
È per lui che suo padre le ha dato il nome Rudi?
Sì, e anche per avere questo piccolo lato cartesiano che fa un po’ difetto ai popoli latini (Garcia ride, e con «cartesiano» intende metodico, rigoroso, ndr). Sicuramente è così.
Rudi Altig, vincitore nel 1964, anno della sua nascita, del Giro di Andalusia e del Giro delle Fiandre. Tra le persone che hanno segnato il suo cammino c’è ovviamente suo padre. Ma c’è un altro viso forte che vorrei farle vedere (scorrono delle immagini, ndr). Quello di Robert…
Ovviamente! Robert Nouzaret! Quando lascio il Lille - non bisogna scordarsi che ci ho giocato 6 anni, è lì che ho firmato il mio primo contratto professionistico e ho trascorso begli anni - Robert diventa l’allenatore del Caen e mi ingaggia, Caen che era per la prima volta in prima divisione. È una persona dalla quale ho imparato parecchio. Quando mi ha chiamato come assistente al Saint-Etienne, mi ha insegnato a strutturare un club. È un grande "costruttore" (probabilmente un manager alla Ferguson, ndr), è un gran signore e ha certamente contato molto per me, sia quando ero giocatore al Caen sia per il mio reintegro tra i professionisti, perché non mi scordo che ho anche allenato tra i dilettanti (al Corbeille-Essonnes, ndr), dove ho ottenuto una promozione. È vero anche che, quando alleni tra i dilettanti, hai voglia di tornare tra i pro. E Robert mi ha permesso di farlo. Ecco, posso dire che la mia qualità nel saper fare tutto e nello strutturare un club la devo a lui.
Lei ha un carattere risoluto, ma poi vediamo che ci sono molte cose che la toccano, suo padre, Robert (Nouzaret, ndr), o che addirittura la fanno un po’ barcollare. Ci sono così tanti altri visi sul suo percorso. Ce n’è uno molto forte che l’accompagna sempre, un viso scolpito con il coltello (testuale, ndr), che ha giocato con lei nei Pulcini a Corbeille- Essonnes. Un bel tipetto anche lui. È Fred Bompard (il suo vice alla Roma, ndr).
Fred è il mio fedele assistente.
Avete vissuto tutto insieme: i Pulcini, le ragazze, la disoccupazione.
Sì, abbiamo vissuto parecchie cose insieme. È veramente una persona che merita di essere conosciuta, perché sotto l’aspetto un po’ burbero, massiccio, ha un cuore grande così. È un lavoratore instancabile. Sotto questa faccia da duro si nasconde un uomo affettuoso. Come me, penso.
(mostrano a Garcia il video in cui, dentro lo spogliatoio del Lille, suona "Porompompero" di Manolo Escobar, ndr)
È un po’ quello che è successo quando sono arrivato alla Roma. Ovviamente sono andati a cercare delle cose della mia vita precedente, tra le quali questa. Finora è andato tutto bene, non c’è stato nessun problema particolare, ma le posso assicurare che, se non fosse così, sono cose come queste che possono generare problemi.
(l’intervistatore chiede al pubblico se vogliono vedere Garcia suonare ancora quel brano in diretta, e in studio gli viene data una chitarra, ndr).
No, no, no. Nella vita non possiamo ripetere due volte gli stessi errori. Dovete capire che in Italia c’è una copertura mediatica enorme. Come ho appena detto, sono cose che non rinnego, che sono state fatte in un contesto particolare e preciso.
Ci faccia solo un piccolo accordo alla U2, allora.
No, no. È vero che gli U2 sono il mio gruppo preferito, ma meglio di no. La musica è importante nella vita di tutti e nella mia in particolare. Ci sono dei momenti forti della vita che possono essere accompagnati da questo tipo di musica, la usiamo a volte nel dopogara durante i nostri confronti. Ma ecco, questo è un po’ il mio universo personale e particolare e soprattutto un pezzo della mia gioventù che adesso è molto lontano.
Come i barbecue il giovedì a Caen.
Sì, i barbecue il giovedì a Caen con amici che oggi sono stranamente quasi tutti allenatori.
Rudi, a lei piace questo profilo di attaccante che attira a sé i difensori. Come Tulio de Melo al Lille.
No, quello che mi piace è avere a disposizione vari attaccanti con profili complementari e diversi, cosa che avevamo a Lille con il profilo di Tulio de Melo, un attaccante di quel tipo. Ed è quello che ho oggi a disposizione alla Roma, visto che Francesco Totti può giocare come punta. Gervinho anche, ma ho un Marco Borriello che è un attaccante da area di rigore. Avere una serie di opzioni, con vari profili di attaccanti che sappiano fare più movimenti, è certamente un “di più” per la squadra e per l’allenatore.
(Passano al maxischermo le immagini di Townsend del Tottenham, ndr) Rudi, parlavamo dell’importanza di avere giocatori di fascia come Debuchy (allenato da Garcia al Lille e ora in nazionale, ndr). Da qui l’importanza di avere preso Gervinho alla Roma. Gervinho che davano per cotto.
Beh, la risposta viene sempre dal campo. Non esiste un altro tipo di risposta. Ma è vero (riferendosi al filmato, ndr), Townsend è un giocatore raro nel calcio moderno, non ci sono tanti attaccanti come lui capaci di andare nell’uno contro uno, di portare via gli avversari e poi di andare in profondità, grazie alla loro velocità, facendosi dare la palla. È per questo che ho preso Gervinho. E per il momento va molto bene, sì...
Ah beh, sì, eccome se va bene… Molto bene, anche!
(Garcia ride, ndr)
E Strootman?
Sta bene, sta bene. In più (parlando dell’Olanda, ndr) erano già qualificati prima di questa partita (con l’Ungheria, ndr) e noi giochiamo venerdì (domani, ndr) contro il Napoli e spero che martedì van Gaal mostrerà buon senso (e così è stato, Strootman non è sceso in campo, ndr).
Ma lei dà delle direttive ai giocatori o, come gli altri, chiama il selezionatore della nazionale?
No, ma quello che succede è che esiste uno scambio di informazioni con loro. Non chiediamo nulla perché il selezionatore è l’unico a decidere cosa fare con i suoi giocatori, ma mi è piaciuto moltissimo quello italiano (Prandelli, ndr), che ha detto in conferenza stampa che sa bene che c’è una partita importante tra Roma e Napoli venerdì (domani) e avrebbe mostrato buon senso nei confronti dei giocatori della sua selezione. Ecco, penso che sia una buona cosa.
Qual è il profilo di Strootman? Lo si conosce poco.
È un giocatore che sa fare tutto, con molto carattere, a 23 anni è già capitano della nazionale olandese. Formidabile piede sinistro, abile nel proiettarsi in avanti, capace di cambi repentini di ritmo, vede tutto prima di tutti, col suo piede sinistro è capace di fare qualsiasi cosa.
Come lo ha preso la Roma?
Abbiamo parlato molto con Walter Sabatini, non era facile prenderlo, prima di tutto perché il PSV è un cliente molto ostico nelle trattative. E poi era necessario convincerlo. Ho passato molto tempo a parlare con lui al telefono prima di fare breccia e di persuaderlo che volevamo creare una grande squadra. E che avevamo il progetto di diventare uno dei più grandi club europei nei prossimi anni.
Cosa lo ha fatto esitare?
È stato uno dei pochissimi giocatori che, quando gli ho parlato la prima volta, mi ha chiesto quale sarebbe stato il profilo della squadra, quali giocatori soprattutto ne avrebbero fatto parte. E questo è davvero raro, perché l’allenatore spiega la propria filosofia e il suo sistema di gioco, mentre lui voleva sapere chi sarebbe stato lì, chi sarebbe partito ma specialmente chi sarebbe arrivato, per essere sicuro della sua scelta. E spero che ora non sia deluso.
Rudi, come siete messi in difesa?
Avevamo già dei giocatori in certi ruoli, "Leo" Castan, brasiliano, Nicolas Burdisso che tutti conosciamo e una promessa molto giovane che di nome fa Romagnoli. Abbiamo reclutato Mehdi Benatia, che tutti qui nella regione di Parigi conoscono e poi un giovanissimo di 17 anni, il nostro piccolo baby (testuale, ndr) Tin Jedvaj. Ma la mia cerniera difensiva, che funziona e ha preso solo un gol, è Benatia-Castan, una cerniera molto sicura non solo in fase di ripartenza ma anche molto forte fisicamente, nei duelli. Dal punto di vista difensivo, sono perfettamente complementari. Sì, per il momento va tutto bene.
Benatia. Gran bel colpo perché era molto richiesto. Per lui ha fatto la stessa cosa di Strootman? Una telefonata?
Sì, ci siamo parlati con Mehdi ed è stato anche più facile visto che ci conoscevamo già da un po’. E poi anche perché proviene dal mio stesso dipartimento (il 91, ovvero Essonne, ndr). È un giocatore di grande qualità e talento, con un senso dell’anticipo fenomenale, forte di testa, forte fisicamente, ma soprattutto un uomo di grande spessore, intelligente, uno che ragiona bene. E questo è molto interessante per un allenatore, perché un calciatore così è anche un uomo spogliatoio. Poi ha giocato tre anni all’Udinese, parla un italiano perfetto. Ecco, speriamo che duri. Tutti insieme, siamo per il momento molto solidi dal punto di vista difensivo.
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