Maurizio Beretta, presidente della Lega di A: sostiene l’ex c.t. Cesare Prandelli che in Germania la squadra più importante è la nazionale, mentre da noi contano solo i club.
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Beretta: «Non sono i club ad aver ucciso la nazionale»
Maurizio Berretta difende il c.t. Cesare Prandelli e accusa che in Italia contano solo i club mentre in Germania la nazionale è molto importante
Domanda a bruciapelo: sono stati i club a uccidere la nazionale?
«Assolutamente no e per tantissime ragioni. I club sono sempre stati molto attenti alle richieste della nazionale, che ora può sfruttare nove finestre a biennio, di dieci giorni l’una. Una formula che è stata razionalizzata e largamente condivisa a livello internazionale. I club seguono con interesse, partecipazione e anche sacrificio le attività delle nazionali perché in ogni finestra si spostano molti giocatori. In più, quando c’è stato chiesto, la Lega di A ha dato immediata disponibilità ai due giorni per i famosi stage».
Ma i giocatori, durante gli stage, secondo gli accordi non potevano toccare il pallone. Solo test fisici.
«Noi abbiamo accolto la richiesta, così come ci è stata presentata. Certamente gli stage arrivavano in una fase delicata delle competizioni. Comunque sono stati qualcosa in più rispetto agli altri Paesi: dimostrano il clima di disponibilità, confermato da altri esempi».
Tipo?
«Da quando in Federazione c’è Sacchi, le società hanno rivisto i calendari delle giovanili per dare più spazio alle varie Under 17, 21. C’è una forte identità di interessi: la nazionale cresce con i giocatori dei club e i giocatori possono crescere con la nazionale».
I problemi di comunicazione però non sono mancati. Ricordiamo un duro sfogo di Conte quando Prandelli convocò Chiellini.
«Ripeto, in termini generali i rapporti sono sereni. Poi è importante che, oltre al livello istituzionale, ci siano confronto e dialogo anche a livello personale tra il c.t. e gli allenatori».
Allora forse è un problema culturale: nel Paese dei mille campanili si fa più fatica ad amare la nazionale?
«Non vedo contrapposizione, anzi una passione alimenta l’altra: se i club non fossero seguiti da almeno 16 milioni di tifosi, se il calcio in Italia non fosse un fenomeno così importante, coinvolgente e trasversale, sarebbe più difficile anche la mobilitazione per la nazionale».
E allora, se non sono stati i club, chi ha ucciso la nazionale?
«Intanto vorrei sottolineare che, il Mondiale in Brasile è stato un momento di grande amarezza, perché c’erano legittime aspettative, però è stato un torneo con tante sorprese, in cui si sono sovvertiti molti pronostici. Ora bisogna reagire in modo scientifico, non emotivo. Impostare programmi, guardando al meglio degli altri movimenti, senza negare nelle polemiche».
Ora il punto di riferimento sembra la Germania, dove gli stranieri sono il 34%, mentre da noi i calciatori italiani sono in minoranza.
«In Germania da un lato si è lavorato intelligentemente sulla formazione di base, creando tanti centri federali a livello territoriale, e altri dedicati ai giovani talenti con il coinvolgimento dei club. Dall’altro lato però la Germania fa più facilmente diventare tedeschi e convocabili per la nazionale ragazzi con altre origini: sfrutta nel modo migliore la multietnicità. Inoltre quello tedesco è uno dei pochi campionati a 18 squadre».
Una riforma possibile in Italia?
«Serve il consenso, la Lega di A deve maturare una posizione. Tutti i poteri li ha l’assemblea ma lì si può avviare una riflessione. La mia, personalissima, opinione è che ci si possa ragionare, a patto di ridurre le retrocessioni, altrimenti si rischia di compromettere la stabilità complessiva».
Per la presidenza federale si è candidato Demetrio Albertini, la maggioranza della Lega di A sembra intenzionata ad appoggiare Tavecchio.
«Credo che noi dobbiamo guardare ai contenuti. L’assemblea di Lega finora ha seguito il percorso più corretto, dopodomani ci riuniremo e vedremo quali sono le nostre priorità» .
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