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Mirante: “Impensabile essere titolare nella Roma. Ascolterò la proposta per il rinnovo”

Il portiere giallorosso: "Lavoro insieme a Pau Lopez per portare tanti punti alla squadra. Non mi sono mai considerato un precario"

Redazione

Partito come "secondo", Antonio Mirante ha strappato la porta della Roma prima dalle mani di Robin Olsen e poi a quelle di Pau Lopez. Il portiere, titolare in campionato, ha parlato della sua esperienza in giallorosso (e della carriera in generale) in un'intervista a SportWeek: "Era impensabile prevedere che mi sarei ritrovato titolare già all’inizio della stagione, anche se qualche partita, con Ranieri prima e Fonseca poi, l’avevo messa insieme. Impegno e fortuna mi hanno permesso di essere dove sono oggi, ma le trappole sono dietro l’angolo". 

E quali sono, queste trappole?

La mia esperienza mi suggerisce che devo confermarmi ogni settimana. Non posso pensare di essere in credito col calcio, e quindi di essere immune da critiche di fronte a eventuali errori. È questo lo spirito col quale mi sono presentato alla Roma. Sapevo di venire a fare il secondo, ma sapevo pure che avrei lavorato tanto perché non mi piace accontentarmi. Neppure alla mia età.

Lavori tanto anche perché sei costretto a dimostrare più di altri?

No. Ciò che devo dimostrare è di poter essere il portiere della Roma. O uno dei portieri. Oggi ogni grande squadra deve avere due portieri all’altezza, che si allenano forte per farsi trovare pronti.

L’allenatore ti aveva detto, o almeno fatto capire, che il posto sarebbe stato tuo?

Io con Fonseca non ho mai parlato. Ripeto: non mi aspettavo di essere titolare alla prima di campionato. So di avere accanto un portiere bravo, giovane, ambizioso e che la Roma ha pagato parecchio, 28 milioni. La mia filosofia non è quella di lavorare da solo, curando solo i miei interessi allo scopo di tenermi il posto, ma insieme a lui per portare tanti punti alla squadra.

Alla domanda se ti senti un precario, cosa rispondi?

Che non mi sono mai considerato tale. Ma non mi sentivo un precario neanche quando, con Di Francesco in panchina, giocavo poco o niente. Una partita in campionato col Chievo e poi, il 12 febbraio di un anno fa, l’ottavo di finale di Champions. Non ci avevo mai giocato prima. Quella sera, contro il Porto, mi sono proprio divertito. Mi sentivo addosso il piacere di giocare. Anche sul 2-1, non pensavo: speriamo che finisca presto. Al contrario, volevo che la partita continuasse all’infinito.

Quella sera pensasti di avercela fatta nel calcio, finalmente?

Pensai di aver raggiunto un traguardo importante. A dicembre avevo già giocato una partita del girone, contro il Viktoria Plzen, ma contava zero, eravamo già qualificati. Ma un ottavo di Champions a 36 anni non è cosa da tutti. Proprio quella partita mi fece capire che non avrei dovuto accontentarmi.

Tu e Pau Lopez vi siete detti qualcosa del tipo: giochiamoci il posto e vinca il migliore? Siete di quelli che si spronano a vicenda, oppure tra voi ci sono rapporti corretti, ma puramente professionali?

Non c’è stato bisogno di chiarirsi. Siamo due persone intelligenti. Ho sempre avuto ottimi rapporti coi miei colleghi, sia quando giocavo, sia quando stavo in panchina. Mi piace pensare che quello che ho di fianco sia un compagno e non un avversario. Il portiere è un ruolo di sofferenza, soprattutto durante la settimana. È evidente che ci sono delle gerarchie, come è evidente che, quando è arrivato Pau, io avevo finito la stagione da titolare, tanto da conquistare la Nazionale. Avevo voglia di continuare a giocare, eppure ho accettato di scivolare di nuovo all’indietro. Alla mia età non posso permettermi atteggiamenti sbagliati verso la società, l’allenatore, i compagni. Lamentarsi, rosicare... No. La chiave per mantenere un buon rapporto con l’altro portiere è la competizione. Allenarsi alla grande, come sta facendo Pau in questo momento.

Iezzo, tu, Donnarumma: Castellammare di Stabia è terra di portieri. Coincidenza o c’è un segreto?

Il segreto è Ernesto Ferrara, il maestro che tutti noi abbiamo avuto. Lui riusciva a guardare un portiere in prospettiva, in-uendo cosa sarebbe potuto diventare: è una cosa difficilissima. Mi ha dato delle basi tecniche che mi hanno aiutato al Sorrento prima e alla Juve poi. Donnarumma è fisicamente straripante, e se a queste doti aggiungi la tecnica che gli ha dato Ferrara, il risultato è che Gigio è destinato a diventare il più forte di tutti.

Vi sentite, tu e lui?

Molto. Mi piace come affronta le situazioni difficili, grazie anche alla famiglia che ha alle spalle. È un ragazzo perbene.

Siete partiti dalla stessa scuola calcio...

Diciamo che io gli ho prepara- to il terreno, gliel’ho ammorbidito (ride). Al Club Napoli Castellammare, ai miei tempi il campo era in terra battuta. Non c’era palestra, ci allenavamo in una buca di sabbia. Rispetto a quelli della mia generazione i ragazzi di oggi sono molto più svegli, ma si rendono meno conto di ciò che hanno nelle mani.

Alla Roma sei il più anziano del gruppo e di te, si legge, i compagni apprezzano la coerenza. In cosa consiste, il tuo essere coerente?

Coerenza significa allenarsi sempre con la stessa intensità, soprattutto quando non giochi. Essere il più vecchio mi dà delle responsabilità, ma non mi va di essere definito anziano: preferisco che si dica che sono esperto. Mi piace stare coi giovani perché mi aiuta a essere più elastico dal punto vista mentale. Con loro non faccio mai il paragone coi miei tempi. Non mi piace pensare che se un ragazzo sta sempre col cellulare in mano faccia qualcosa di male. Non mi piace rinfacciargli che prima, in ritiro, si prendeva il caffè tutti insieme e invece oggi, finita la cena, scappano in camera per attaccarsi alla Playstation o alle videochiamate.

Ma, tra te e il tuo amico Dzeko, i più giovani a chi chiedono consiglio?

Lui è paziente, comprensivo, ma sa essere anche duro. Di Edin mi colpisce la professionalità, venuta fuori anche nell’ultimo periodo, quando poteva sbandare dopo tutte le voci che lo volevano alla Juve e invece si è confermato quello di sempre, arrivando a Trigoria per primo e uscendo per ultimo. Lui ci tiene alla Roma. È qui da cinque anni e sente la responsabilità di quello che rappresenta. Nessuno di noi vuol fare brutta figura, soprattutto verso l’esterno. Più vai avanti con l’età, più senti l’esigenza di lasciare una buona impressione nelle persone. Sotto questo profilo i calciatori stanno cambiando. Sono più attenti alla loro immagine, nel senso professionale del termine.

Sei sempre stato portiere?

Sì. Da bambino, nelle partitelle per strada o all’oratorio, non avevo nessuna voglia di giocare in porta. Mi obbligava mio fratello Angelo, che ha quattro anni più di me. Poiché giocavo con lui e i suoi amici, loro decidevano i ruoli e io, il piccolo del gruppo, non avevo diritto di replica.

Il tuo rione a Castellammare?

Madonna delle Grazie. Non era proprio un paradiso. Noi bambini giocavamo ai Salesiani e nelle vie adiacenti, dove avevamo creato tanti campi da calcio immaginari, con i portoni dei palazzi a fare da porte. Ricordo i Super Santos bucati e le collette per ricomprarli, ci mettevamo in venti per arrivare alle duemila lire che costava.

Papà operaio, tre figli – due maschi e una femmina – da crescere. I tuoi ti hanno mai detto: “Antonio, lascia stare il calcio e cercati un lavoro perché in casa c’è bisogno”? Oppure tu ti sei sentito in colpa per aver inseguito il tuo sogno?

Non ho avuto il tempo per eventuali sensi di colpa perché è successo tutto molto in fretta. Avevo 14 anni quando mi chiamò il Sorrento, in D. Era il ’97. Iniziai nella Berretti, alla seconda stagione ero già il terzo portiere della prima squadra. Dopo uno 0-0 col Terzigno diventai titolare. Prendevo 60 mila lire di rimborso spese, l’abbonamento alla Circumvesuviana da casa mia a Sorrento ne costava 55 mila. Tra ottobre e novembre venni a sapere che a fine campionato mi sarei trasferito a Bologna. L’ultima partita col Sorrento la gioco contro la Pro Ebolitana, in trasferta. Non ho mai preso tanti sputi in vita mia. A quei tempi era così, ed è stata una palestra che mi ha formato. Poco prima di Natale, a casa mia si presenta il presidente e mi dice: “Ti ho venduto alla Juve”. Mia madre chiede: “Quando parte?”. E lui: “Domani ha le visite mediche”. A quel punto c’è stato il tracollo della famiglia Mirante (ride). L’1 gennaio 2000 ho fatto definitivamente le valigie per Torino.

Un bel salto.

Ma all’inizio ho fatto fatica. Ero passato dal giocare in Serie D a 15 anni, alla panchina degli Allievi Nazionali. Va bene, ero alla Juve, ma io volevo giocare. E alla Juve per tre anni non ho mai giocato. A un Torneo di Viareggio faccio l’ultima partita del girone, che non contava niente. I miei genitori erano venuti a vedermi. Passeggio con loro e gli dico: “Non so se ho voglia di continuare. Forse la mia realtà è quella della serie D in Campania”. E mio padre: “Guarda, se giochi come oggi hai ragione”. Quelle parole furono una scossa: in quel momento decisi che il calcio sarebbe stato la mia vita. Presi ad allenarmi meglio, iniziai a giocare. L’anno dopo ero titolare in Primavera, la stagione successiva ero il terzo della prima squadra, nel 2004 sono andato a Crotone in B.

Alla Juve hai avuto per compagni Van der Sar e Buffon.

Il primo è stato Van der Sar. Mi regalò subito un paio di guanti perché io non avevo sponsor. Era uno dei primi nel suo ruolo a saper giocare benissimo coi piedi. Ha avuto la sfiga di commettere un paio di errori determinanti, uno dei quali costò alla Juve lo scudetto a vantaggio proprio della Roma.

E venne sostituito da Buffon.

A lui, come a Donnarumma, il Signore ha poggiato la mano sulla testa e gli ha detto: tu sei nato portiere. Nel nostro ruolo le doti fisiche e atletiche sono determinanti. Il resto lo fa la personalità. Non ho mai visto Buffon “subire” la partita, il risultato. La sua consapevolezza, la sua sfrontatezza lo hanno molto aiutato, soprattutto nei primi anni di carriera.

Anche tu riesci a non farti condizionare da una gara storta?

Ci provo. È difficile ma neces- sario, perché oggi si gioca così spesso che non puoi permetter- ti di abbatterti.

A Crotone trovi Gasperini.

L’avevo già avuto in Primavera alla Juve. Il primo giorno mi mandò a fare la doccia. Mi aveva ordinato di raccogliere i palloni tra una partitella e l’altra e io avevo fatto l’errore di rispondergli che ero stanco. Con lui, poi, a Crotone in B, ho giocato sempre. È un allenatore che insegna calcio, un calcio offensivo e aggressivo. Se gli dai in mano un giovane, lo trasforma in oro.

Assaggi la A col Siena, qualche comparsata con la Juve in B, poi di nuovo A nella Samp.

Non è stato il mio periodo migliore. Ero giovane, avevo bisogno di giocare per misurarmi col calcio dei grandi. Ho sofferto la concorrenza di Castellazzi, un portiere molto bravo, e la mancanza di continuità. È stata anche colpa mia. Non ho reagito alle difficoltà, mi sentivo una vittima e mi accontentavo di pensare che fosse l’allenatore a sbagliare, allenandomi senza la voglia di ribaltare le gerarchie.

Tutt’altra storia a Parma e Bologna.

A Parma ho fatto 6 anni splendidi. Ero maturato e volevo dimostrare di essere all’altezza della Serie A. Non potevo permettermi di fallire e ci ho messo tutto me stesso. Il primo anno ho avuto Guidolin, poi Marino, Colomba e Donadoni, l’allenatore col quale ho giocato di più, avendolo ritrovato a Bologna. Donadoni è un signore: quando òa società, con Ghirardi presidente, era ormai sull’orlo del fallimento, pagava lui la lavanderia per permetterci di avere le divise pulite. Bologna è una grande piazza, il presidente Saputo una persona perbene.

Proprio lì però hai rischiato di smettere.

Prima trasferta di campionato a Torino. Al ritorno sto male. A letto sento il cuore che batte in modo irregolare. In ospedale mi mettono l’holter per 24 ore. Il giorno dopo il professor Zeppilli mi dice: “I tuoi esami sono davvero brutti. Hai delle aritmie che dobbiamo approfondire”. Torno a casa e penso: col calcio ho chiuso. Il giorno prima della risonanza magnetica che avrebbe deciso il mio destino professionale, mio padre mi fa: “Quanti anni hai giocato in A?”. “Dodici, più o meno”. “Comunque vada domani, considerati fortunato”. Dalla risonanza non uscirono malformazioni congenite e dal quel momento pensai solo al ritorno in campo.

È davvero così difficile vincere a Roma?

Quando la affrontavo da avversario, sentivo che la gente riconosceva se stessa e la città nella squadra. C’è un’identificazione totale tra i tifosi e il club, un rapporto simbiotico, quasi tra fratello e fratello, e credo che in Italia non abbia eguali. Un amore viscerale porta a reazioni esagerate nel bene e nel male: quando vinci, la goduria è maggiore; quando perdi, la sofferenza e le critiche sono amplificate. Con tutto questo, chi ha detto che non si può vincere a Roma? Giocare per questa squadra è fantastico. Sulla bilancia, i pro pesano molto più dei contro.

Il contratto ti scade a giugno: e dopo?

Non lo so. Non farò problemi neanche su questo. Io mi vedo ancora giocatore per più di qualche anno. Se pensassi già ora a cosa fare dopo, perderei energie adesso. Se la Roma vorrà farmi una proposta, io sono pronto ad ascoltarla.

Ci credi che il campionato finisca nonostante il Covid-19?

Devo crederci. C’è un protocollo preciso, basta seguirlo, consapevoli che noi giocatori siamo persone normali e come tali possiamo ammalarci. È successo anche a me, anche se per fortuna in estate. Abbiamo il dovere di affrontare con grande attenzione il problema, ma anche di fidarci del sistema.