Antonio Mirante ha rilasciato una lunga intervista al sito ufficiale del club. Il numero 83 della Roma ha ripercorso tutti i passi della sua vita e carriera da professionista, dai campi infuocati della Serie D campana fino all'affermazione in Serie A. Il ruolo di portiere si addice al suo carattere e il giallorosso l'ha potuto scoprire molto presto grazie al contributo del fratello maggiore. L’ex Bologna ha parlato anche del rientro a Trigoria per gli allenamenti e della ripresa della Serie A. Queste le sue parole:
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Mirante: “Difficile tornare in campo dopo lo stop, ma la ripresa può essere una spinta per tutti”
Il portiere giallorosso: "La Roma viene dipinta come una squadra piena di pressione ma io invece percepisco tutt’altro"
L'ex Bologna ha parlato anche del rientro a Trigoria per gli allenamenti e della ripresa della Serie A. Queste le sue parole:
Chi era Antonio da bambino?
Ero un ragazzo timido, molto riservato, mi sentivo più maturo rispetto che all’età che avevo. Ero piuttosto solitario, diciamo che il mio carattere mi ha naturalmente condotto al ruolo di portiere, agevolato anche da mio fratello che, essendo di quattro anni più grande, mi metteva in porta quando giocavamo a palla io e lui.
Quindi hai iniziato da subito in porta…
All’inizio era una costrizione ma poi fortunatamente è diventato il mio ruolo preferito, non ho mai avuto dubbi anche se da bambino sentivo come tutti l’attrazione per l’attacco. Giocavamo tanto per strada, io stavo sempre con mio fratello e i suoi amici. Le porte le facevamo con gli zaini, con i sassi, con le macchine o oppure sceglievamo un cancello. Anche quella è stata una grande scuola. A ripensarci ora sembra un’altra epoca.
Anche alla scuola calcio sei stato portiere da subito?
Sì, ho iniziato da portiere a 6 anni al Club Napoli Castellammare, una squadra della mia città. Lì ho avuto la fortuna di trovare un allenatore che mi ha dato delle ottime basi: Ernesto Ferrara. Da giovane era portiere anche lui ed è arrivato fino alla Serie B. Per lui sono passati portieri come i fratelli Donnarumma e Gennaro Iezzo. Per me è stato come un secondo padre.
Da bambino avevi un modello o un idolo tra i portieri?
Ne avevo diversi. Per la mia generazione i punti di riferimento erano Gigi Buffon e Angelo Peruzzi. Da piccolo mi piaceva molto anche Walter Zenga. Anche lo stile di Pino Taglialatela mi piaceva. A livello di tecnica invece ho sempre guardato con grande ammirazione a Luca Marchegiani.
Di che squadra eri?
Io ho sempre tifato per la Juve Stabia. È una passione di famiglia, siamo di Castellammare e ci teniamo tanto. Mio zio è uno storico tifoso, andavo spesso con lui, con mio padre e con mio fratello. Anche oggi la seguo molto. Quando ero piccolo era in Serie C1, poi è fallita ed è ripartita dalla D fino a risalire in Serie B dove è tornata quest’anno. Oltre alla Juve Stabia molte squadre di Serie C dell’epoca avevano un grande seguito, la Nocerina, il Savoia, la Turris, la Casertana, tutte squadre che alle spalle hanno delle cittadine popolose. C’erano tante rivalità ed erano campionati di alto livello in campo e per le tifoserie al seguito. C’erano tante partite belle infuocate. Quando potevo andavo anche in trasferta con il gruppo del rione dove abitavo, Madonna delle Grazie.
C’eri nella finale playoff del 2011 al Flaminio contro l’Atletico Roma?
No. Non sono potuto andare perché ero al matrimonio di Buffon quel giorno ma avevo seguito tutti playoff, sono stati bravi, come lo sono stati quest’estate.
Dopo il Club Napoli Castellammare ti sei spostato al Sorrento…
Sì, avevo 14 anni e dopo un anno nella categoria Berretti sono diventato titolare in prima squadra in Serie D. Come carattere ero già abbastanza formato, giocavo con i grandi e il nostro girone comprendeva squadre di Campania e Lazio, quindi c’erano partite abbastanza toste… L’ultima che feci prima di andare alla Juventus fu Pro Ebolitana-Sorrento e successe di tutto. Erano quasi tutti derby: c’eravamo noi, c’erano la Palmese, la Casertana, il Terzigno. Ogni domenica era una battaglia.
Come è stato passare da questa dimensione alle giovanili della Juventus?
All’inizio è stato difficile, ho lasciato casa da un giorno all’altro e lì c’era una situazione totalmente diversa. Passare dalle partite con la gente adulta agli allievi nazionali in un settore giovanile così strutturato è stato un po’ come ricominciare una trafila diversa. Sono cresciuto lì per 5 anni e nell’ultimo ero il terzo portiere della prima squadra.
A quel punto potevi allenarti al fianco di portieri importanti…
Nel primo ritiro estivo che ho fatto con la Juventus c’era Van der Sar che alla Juve non ha avuto molta fortuna ma era un portiere fortissimo. Poi è arrivato Gigi Buffon, con lui ho fatto due anni. È un fuoriclasse assoluto, un ragazzo di grande spessore e carisma ma al tempo stesso semplice, disponibile con tutti i compagni.
Ti era già chiaro di essere a un passo dal diventare un professionista?
In quegli anni abbiamo vinto per due volte il Viareggio e una volta la Coppa Italia. La Juventus aveva preso tanti giovani bravi, prima altri vivai erano superiori. Sentivo che ero vicino al mio obiettivo ma il percorso di un portiere è diverso rispetto agli altri calciatori. Uscire dalla Primavera e andare a giocare in Serie C era lo sbocco più naturale, andare in B era una fortuna. Dopo di che servivano ancora fortuna e bravura per riuscire a giocare e a emergere. Io sono andato in Serie B al Crotone che come allenatore aveva Giampiero Gasperini. Era una neopromossa e quell’anno ci siamo salvati bene, con tanti giovani forti come Matteo Paro, Daniele Gastaldello, Abdoulay Konko, Domenico Maietta, Tomas Guzman. Andando bene lì mi sono reso conto che avrei potuto avere una carriera di livello alto.
C’è un consiglio che daresti a un giovane che vuole diventare professionista?
Uscire da un settore giovanile è come passare dalla scuola al mondo dei grandi, dove ci si gioca tanto per raggiungere degli obiettivi, in cui ogni punto conta e possono esserci tanti ostacoli. La maggior parte dei giovani che esce dai settori giovanili delle grandi squadre lo fa in prestito. Per me non bisogna fare l’errore di pensare che ci sia una ‘casa madre’ che ti possa aiutare o coccolare. Bisogna calarsi bene dentro ogni contesto per affrontare in maniera adeguata le difficoltà che certamente si presenteranno. Non conta da dove arrivi, ti devi confrontare con tanti altri talenti che vengono da un percorso diverso ma che hanno il tuo stesso obiettivo.
Dopo il Crotone sei passato al Siena: com’è stato l’impatto con la Serie A?
Quella stagione iniziò con uno 0-4 in Coppa Italia contro l’Atalanta. Esordimmo in campionato con il Cagliari e dopo 10 minuti eravamo sotto e iniziavamo a vedere un po’ di fantasmi. Poi abbiamo vinto e la stagione è stata positiva. Dopo 25 partite però ho perso il posto, iniziò a giocare da titolare Marco Fortin. Dopo qualche partita l’ho riguadagnato. Anche lì ho avuto un grande preparatore, Francesco Anellino che purtroppo è scomparso in un incidente stradale. Era nello staff di Antonio Conte che lì a Siena era il secondo di Luigi De Canio.
Dopo Siena sei tornato alla Juventus ma in Serie B. Che effetto faceva essere in una grande squadra ma in un anno così particolare?
Avrei preferito continuare in una squadra in cui avevo più possibilità di giocare ma la Juventus mi ha richiamato. Ero in B ma in una squadra con quattro calciatori in campo nella finale del Mondiale che erano rimasti in più c’era Pavel Nedved. Era una situazione strana ma è stato un anno di grande formazione per me. Avevo 23 anni e ho cercato di imparare il più possibile. Il livello della squadra era altissimo e ce ne erano anche altre di alto livello, come Napoli e Genoa che sono salite con noi senza dover disputare i playoff.
Dopo la Juventus la Sampdoria…
Sono andato via dalla Juventus perché volevo giocare ma alla Samp non è stata un’esperienza felice. Ho avuto i miei demeriti. Prendevo troppo sul personale il fatto di non giocare sempre, avrei dovuto essere più spensierato ma so che non è questo il mio carattere. Sono state due buone annate a livello di squadra, abbiamo anche giocato una finale di Coppa Italia. Poi sono andato al Parma e ho trovato la mia condizione ideale. Il Parma è stata una squadra perfetta per me, per poter diventare un portiere completo. Fino a quel momento ero un portiere giovane, con delle buone qualità ma ancora non mi ero imposto del tutto. Lì sono maturato tanto, in più la città mi piaceva molto. Abbiamo ottenuto buoni risultati e mi sono consacrato come portiere di Serie A. Con Donadoni in panchina siamo anche arrivati in zona UEFA ma purtroppo non l’abbiamo potuta giocare…
L’ultimo anno al Parma è coinciso con il fallimento della società: com’è stato viverlo da dentro?
Ho visto tutto quello che in una società di calcio non si deve vedere. Un giorno sono venuti a sequestrare le attrezzature della palestra mentre ci stavamo allenando, cose da non credere. A oggi non so cosa sia successo a livello penale per i responsabili. Tutti i dipendenti sono stati trattati malissimo, è stata davvero una brutta pagina per il calcio. Eravamo arrivati sesti l’anno prima, eravamo pronti per l’Europa League ma la UEFA non ci ha dato la licenza e da lì è iniziato il calvario.
Poi ti sei spostato di poco e sei arrivato al Bologna.
Un altro club in cui sono stato benissimo. La squadra era neopromossa, il presidente Joey Saputo è una persona davvero perbene, la città è bellissima e lo è anche la tifoseria. Lì ho anche attraversato un momento non facile per un problema al cuore che mi ha tenuto fermo per tre mesi. Ho sentito tutta la vicinanza da parte di chi mi era attorno. Bologna è stata davvero una parentesi felice.
Come è stato attraversare quel momento delicato?
Il lieve malore da cui è iniziato tutto è stato il giorno dopo una partita contro il Torino. Nei primi 10 giorni ho pensato di tutto. Era subentrata tanta paura, mi è passata davanti tutta la carriera e non solo, anche tutta la mia vita. Avevo 33 anni, della carriera mi interessava tanto ma pensavo anche che 10 anni di Serie A me li ero fatti e che quindi potevo ritenermi fortunato. In quel momento il pensiero principale era stare bene. Mi sono curato a Roma al Policlinico Gemelli. Dopo 10 giorni di controlli è uscito fuori che fortunatamente non si trattava di nulla di congenito ma di un’infiammazione del miocardio e che quindi avrei potuto ricominciare a giocare. È stato un sollievo. Nonostante per tre mesi non potessi fare nemmeno una corsetta, mentalmente ero già proiettato sulla ripresa. Cercavo di seguire sempre la squadra, anche in trasferta. Una volta ripreso ad allenarmi ho provato a considerarlo come un comune infortunio superato.
Come ti sei sentito al rientro in campo?
È stato un Bologna-Atalanta. Abbiamo perso 2-0 e alla fine della partita il preparatore Luca Bucci mi ha detto che non mi aveva mai visto così teso ed era vero. Anche nei mesi precedenti ero molto nervoso e avevo perso quattro chili. Da un giorno all’altro mi ero trovato a un passo dal dover smettere. Ma mi ritengo fortunato per come sono stato seguito dal professor Paolo Zeppilli e dallo staff del Bologna.
Durante la tua carriera hai stretto tante amicizie nel mondo del calcio?
Io non sono d’accordo con chi dice che nel calcio non si possano stringere amicizie. Dipende dal carattere. Alla Juventus ho conosciuto Raffaele Palladino e siamo ancora amici fraterni. Al Siena ero un ragazzino e ho stretto un bel rapporto con Daniele Portanova che era giovane ma già era sposato con tre figli. Cassano è stato un grande amico per me sia alla Sampdoria sia al Parma. Eravamo un gruppo bellissimo anche al Bologna. Grazie al calcio ho conosciuto tante belle persone.
Hai affrontato la Roma tante volte: come la vedevi da avversario?
Affrontandola da portiere di una squadra piccola è sempre stata tosta. Ho sempre avuto l’idea di una squadra con un grande legame con i propri giocatori, da Totti a De Rossi fino a Florenzi quando sono arrivato e anche Pellegrini ora. È una cosa per cui ho sempre ammirato la Roma oltre che per il livello dei calciatori. Ho avuto delle partite felici ma per lo più ho preso batoste.
E poi sei arrivato in giallorosso…
Questa occasione è arrivata in un momento in cui non pensavo di lasciare il Bologna. Credevo però che fosse arrivato il momento di fare un’esperienza in una grande squadra. Ho trovato un ambiente che mi ha sorpreso. La Roma viene dipinta come una squadra piena di pressione io invece percepisco tutt’altro. Ho trovato strutture fantastiche, un ambiente eccezionale e una società di alto livello.
C’è un ricordo che ti è rimasto più impresso della tua prima stagione qui?
L’andata dell’ottavo di Champions contro il Porto. È stata una delle partite più importanti della mia carriera. La cosa strana di quella partita è che nonostante stessimo vincendo per 2-1, nei minuti finali non sentivo il normale desiderio che la partita finisse. Mi sarebbe piaciuto continuare a giocare anche oltre il 90’ ed è la prima cosa che ho detto a mio padre dopo il triplice fischio. Mi sono gustato ogni minuto, dalla doppietta di Zaniolo fino al risultato finale. Peccato per il loro gol arrivato in maniera quasi fortuita.
Venendo alla stagione attuale, con Paulo Fonseca e con il tuo staff come ti stai trovando?
È stata una bella sorpresa. Si è imposto subito benissimo, ha avuto un grande impatto sul gruppo e tutti abbiamo sposato le idee che ha portato, il suo atteggiamento e la sua proposta di gioco. È stato un vero peccato aver attraversato un periodo negativo alla ripresa dopo la sosta natalizia. Dopo una bella prima parte di stagione, quel mese ci ha penalizzati oltre misura ma ci stavamo riprendendo dal punto di vista dei risultati e del gioco. Credo che Fonseca sia l’allenatore giusto per la Roma.
Poi è arrivato lo stop: come hai vissuto il periodo di quarantena?
È stata dura dovere interrompere la nostra routine fatta di allenamenti, ritiri e partenze per giocare in campionato e in coppa. Ma ognuno ha dovuto rinunciare alle proprie abitudini e non sarebbe giusto da parte nostra lamentarci. Mi ha fatto piacere che nessuno della squadra se ne sia andato da Roma. L’ho visto come un segno di grande attaccamento e senso di responsabilità. Siamo stati tutti rispettosi l’uno dell’altro. Io stesso non ho mai preso in considerazione l’idea di andare a casa a Napoli che è a un’ora e mezza di macchina da Roma. In più la Società è stata fantastica, ci ha messo a disposizione da subito tutto il necessario per allenarci. Appena è arrivata l’ufficialità che la partita con il Siviglia non si sarebbe giocata, la prima preoccupazione della Società è stata la salute nostra e quella delle nostre famiglie. Anche per quanto riguarda le iniziative intraprese verso la città, non penso ci sia stato un Club migliore del nostro in questa fase. Mi ha reso davvero orgoglioso di farne parte.
Come hai passato il tempo in casa?
Ho visto tanti film e Serie TV e ho approfittato per studiare un po’ di inglese. Ho passato tanto tempo con il mio cane che tra l’altro avevo preso da poco. Ho provato ad approfittare al meglio di questo periodo particolare anche perché non mi piace lamentarmi e nemmeno chi si lamenta.
Com’è andato il rientro a Trigoria in questa fase?
Non è stato facile ripartire essendo divisi in gruppi, con le mascherine, senza poter utilizzare lo spogliatoio o fare partitelle ed esercitazioni di squadra. Questi primi giorni li ho vissuti come una preparazione per le prossime fasi. Dal punto di vista organizzativo abbiamo trovato le migliori condizioni per poter rispettare le restrizioni di questa fase. È difficile non avere la certezza sul quando si riprenderà e su quante partite dovremo giocare. Questo sicuramente condiziona l’impostazione del lavoro ma fortunatamente abbiamo uno staff tecnico e medico molto preparato.
Hai voglia di ricominciare a giocare?
Sì. Parlando del campionato, fino a qualche settimana fa temevo sarebbe stato difficile un accordo su come poter tornare a giocare anche se da parte nostra c’è sempre stata grande voglia di riprendere. Penso che il calcio possa essere una grande spinta per tutti per ripartire.
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