Juan Jesus torna a parlare dopo la ripresa degli allenamenti in forma individuale e lo fa al sito della Roma in una lunga intervista dove racconta anche di quando era bambino e di come ha trascorso la quarantena. Di seguito le sue parole:
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Jesus: “A Roma vorrei restare a lungo ma il rientro a Trigoria è stato strano”
Il difensore brasiliano aggiunge: "Stiamo rimettendo benzina in corpo per farci trovare pronti"
Chi era Juan Jesus da bambino?
“Ero un ragazzo molto molto energico, facevo sempre casino però ero anche timido. Se vai a chiedere ai miei parenti ti diranno che mi beccavano sempre a fare qualcosa di ‘sbagliato’. Sono stato da poco in Brasile con mio figlio e quando lo rimproveravo mio padre e i miei zii mi dicevano che io ero esattamente come lui”.
Dove vivevi con la tua famiglia?
“Sono nato a Belo Horizonte ma sono cresciuto poco fuori città, a Betim. Nella mia vita non ho mai avuto problemi di povertà, mio papà lavorava e ci ha sempre dato tutto. Dove sono cresciuto giocavamo sempre per strada, una via contro l’altra, tipo via numero 6 contro via numero 5 dove abitavamo, era così quasi tutte le sere perché di solito studiavamo la mattina e nel primo pomeriggio ci incontravamo nel campetto del quartiere e ci sfidavamo. Giocavamo anche a nascondino, credo che adesso i bambini difficilmente siano così liberi di giocare. Nel quartiere eravamo sempre in 20, 25 ragazzi, giocavamo anche a un gioco chiamato taco, una sorta di cricket che si giocava in strada. Era molto divertente, quest’estate con la famiglia abbiamo giocato a questo gioco, era da anni che non ci giocavo, mi mancava.
A scuola sono sempre andato con regolrità, altrimenti non mi avrebbero permesso di giocare a calcio, i miei genitori in questo erano molto chiari: prima veniva la scuola, perché non si sapeva cosa avrei fatto nel futuro”.
Hai sempre voluto fare il calciatore?
“Sì sempre, da quando so cos’è un pallone. Mio fratello è più grande di me di tre anni, lui giocava, era anche molto bravo, quando avevo cinque anni lo guardavo quando andava a giocare. Io ho iniziato a giocare a sette o otto anni, nella scuola calcio del quartiere. Anche a scuola giocavo sempre, tutti già dicevano che sarei diventato un calciatore. C’erano anche altri ragazzi bravi, io giocavo da attaccante e da centrocampista ed ero bravo anche perché mio papà era allenatore all’epoca. Crescendo ho avuto l’opportunità di fare un provino all’America Mineiro e da lì è iniziato il voler giocare seriamente. A 14 anni uscivo da scuola, pranzavo velocemente e da solo prendevo un autobus fino alla stazione più vicina, da lì altri 40 minuti in treno e arrivavo al campo di allenamento, che era di terra. Ho fatto tutto questo dai 14 ai 17 anni, da solo: mio padre mi ha accompagnato solo per i primi tre giorni per spiegarmi come dovevo muovermi. Sulla strada mi incontravo con alcuni compagni e andavamo in gruppo anche perché attraversavamo anche posti pericolosi, ma eravamo giovani e non ci hanno mai fatto nulla, in più il nostro portiere abitava in uno di questi quartieri e diceva ‘sono miei compagni, tranquilli’, quindi potevamo attraversarli per accorciare la strada”.
Sentivi di avere le potenzialità di costruirti una carriera da professionista?
“Sì, da lì ho iniziato veramente a pensarlo ma non immaginavo di arrivare a questo livello. Mi dicevo: ‘gioco all’America Mineiro, poi vado al Cruzeiro che era la squadra più importante di Belo Horizonte, e poi vado in Olanda’. Il percorso era questo”.
In Olanda?
“Sì, per molti calciatori brasiliani il percorso era quello quindi immaginavo sarebbe stato lo stesso anche per me. Poi le cose sono andate sempre meglio, giocavo nelle squadre dei più grandi, sono del ‘91 ma mi mettevano con quelli dell’89. Un giorno un mio amico mi ha detto che sarebbe andato a fare un provino all’Internacional di Porto Alegre e mi ha chiesto se volessi andare anche io. Ci ho pensato per una settimana. All’America Mineiro stavo bene, poi ho deciso di provarci”.
E com’è andata?
“È stato un viaggio di quasi un giorno e mezzo in pullman. Avevo 15 anni, pensavo che se fosse andata male sarei tornato indietro senza problemi, non avevo un contratto, potevo fare come volevo. Invece è andata bene, mi è dispiaciuto per il mio amico, avevano chiamato lui ma hanno preso me e lui è tornato indietro. A questo punto ho iniziato a considerarmi un vero calciatore. Sapevo che non sarebbe stata una passeggiata: avrei perso la mia vita da adolescente, non sarei uscito con gli amici. Ci sono ragazzi che non fanno questi sacrifici fino in fondo, ne ho visto tanti che erano bravi a quell’epoca ma che oggi fanno altri mestieri o giocano in Serie C in Brasile”.
Il tuo percorso invece come si è sviluppato?
“Dopo un anno che ero lì mi hanno chiamato subito in Nazionale brasiliana Under 16, continuavo a giocare con i più grandi e questo mi ha aiutato tanto anche se ero lontano dalla famiglia. Abitavo nel convitto sotto lo stadio. Lì si cresce velocemente, bisogna diventare responsabili. È una vita dura perché senza genitori che ti danno delle dritte rischi di fare delle stupidaggini. Vicino allo stadio dell’Inter di Porto Alegre c’è un mini stadio che si chiama Gigantino, ricordo che un giorno c’era un concerto di Ivete Sangalo, siamo entrati anche se non potevamo e la sicurezza ci ha beccati. Lì abbiamo rischiato che ci mandassero via ma l’abbiamo scampata. Oltre a questo poi sono arrivate le convocazioni con la nazionale Under 20 con cui abbiamo vinto il Sudamericano, il Mondiale”.
Quando sei diventato difensore?
“Quando sono andato a fare il provino all’Inter di Porto Alegre mio papà mi ha detto di non presentarmi come centrocampista ma come mezz’ala davanti alla difesa perché sapevo difendere bene. E infatti è andata bene. Quindi giocavo sempre lì, davanti alla difesa. Poi una volta un nostro difensore è stato espulso all’inizio della partita e l’allenatore mi ha chiesto di giocare da difensore. Sono andato bene e mi hanno fatto continuare in questo ruolo. Poi ogni tanto facevo il terzino. Molti bambini iniziano da attaccanti, poi passano a centrocampisti fino ad arrivare in difesa”.
Come ti sei avvicinato alla prima squadra?
“Ero negli Juniores che è come la Primavera, quindi mi mancava solo un gradino. Mi allenavo, anche con la prima squadra, poi è cambiato allenatore, è arrivato Jorge Fossati: ero centrale ma ho giocato terzino per caso e questo allenatore mi ha visto, ha chiesto di me e ha voluto che venissi aggregato. Non me l’aspettavo, dovrò sempre ringraziare Fossati perché mi ha dato la prima possibilità. Io non mi sentivo pronto, avevo timore, lui mi ha spinto e mi ha aiutato tantissimo, giocavo sempre di più e nel 2010 abbiamo vinto la Libertadores”.
A quel punto hai iniziato a puntare all’Europa?
“L’interesse c’era già, nel 2011 mi cercò il Napoli ma il Presidente dell’Internacional voleva che restassi ancora, diceva che ero importante per loro e che da dicembre mi avrebbe lasciato libero. E infatti poi c’è stata l’opportunità di venire all’Inter. Quando sono arrivato in Europa avevo 20 anni, a ripensarci mi fa tenerezza, era tutto diverso, Milano aveva tre metri di neve quando sono arrivato ed era la prima volta che la vedevo. Comunque ho fatto il mio percorso nell’Inter, ho giocato tanto. Sono stato tra i più giovani a raggiungere le 100 presenze battendo il record di Adriano, lui 24 anni io 23. Ho avuto anche delle difficoltà ma nella vita fa bene, fa maturare. Poi ho avuto la possibilità di venire a Roma e ovviamente non ci ho pensato due volte. È una grande società, da anni giocava in Champions League, all’epoca c’era Spalletti, sono venuto di corsa anche perché pensavo che all’Inter il mio ciclo fosse chiuso. Venire qui è stata un’esperienza bellissima, abbiamo fatto tanto: secondo posto, terzo posto, semifinale di Champions League dopo tanti anni. Ancora devo fare tante cose per questa Società e mi piacerebbe rimanere qui veramente per tanti anni perché sto bene, la mia famiglia anche, mio figlio è nato qui, non ho un motivo per andare via”.
All’Inter hai anche avuto l’opportunità di giocare con il tuo idolo…
“Sì, il mio calciatore preferito è sempre stato Lucio. Giocare con lui mi sembrava un sogno, dopo due, tre mesi eravamo compagni di stanza, per me era già il massimo. Ho scoperto anche altri grandi compagni come Ivan Cordoba e Walter Samuel che mi hanno aiutato tanto quando sono arrivato, sono persone bravissime. Tra gli idoli metto anche Daniele De Rossi che ho incontrato prima da avversario poi da compagni. Daniele è uno che ogni giorno ti diceva qualcosa, era sempre sul pezzo. Questi compagni mi hanno aiutato a crescere sia come calciatore che come persona”.
Il consiglio migliore che hai ricevuto in carriera?
“Sono tanti, posso dire una cosa che diceva sempre Spalletti, che è una persona a cui tengo molto perché mi ha dato tante opportunità: prima di essere grandi calciatori bisogna essere brave persone. Quello che posso trasmettere a mio figlio è di cercare di essere una brava persona, educata, umile, questo è un consiglio che porto sempre con me”.
Com’è cambiata la tua vita nel trasferimento dal Brasile all’Italia?
“È cambiato tutto, mi ero appena sposato, ho cambiato città, sono state tante cose nuove insieme. Sono cresciuto ancora di più, la mentalità europea, la mentalità di allenamento, di vivere, mi ha cambiato in meglio, mi ha responsabilizzato. Io e mia moglie eravamo giovanissimi, lontani da tutti, è stata un’esperienza che credo ci abbia fatto un bene enorme: siamo persone migliori, ora abbiamo un figlio che dobbiamo crescere bene”.
Senti la nostalgia del Brasile?
“Sì, c’è la nostalgia del cibo della mamma, della zia Consuelo che cucina benissimo. La saudade è più della famiglia, dello stare insieme. Purtroppo oggi il Brasile vive un momento brutto quindi non penso di tornare lì ma la famiglia manca sempre. Mia figlia Maria Sofia è Porto Alegre, riesco a vederla poco, a Natale o quando andiamo in vacanza. Quando sono lì vado a casa di mia madre e chiamiamo tutti per stare insieme, giochiamo a carte, stiamo uniti perché è una cosa che ci fa bene. A Roma però sto benissimo, ci sentiamo quasi italiani, sono otto anni che stiamo qui, siamo cresciuti qui, anche mia moglie dice che qui è più casa nostra che in Brasile dove andiamo sempre di corsa per andare a trovare tutti. Qui ci sentiamo a casa”.
Hai più amici dentro o fuori dal calcio?
“Ho pochi amici, ma buoni. Ho avuto tanti compagni che non posso definire amici ma con cui ho un bel rapporto come Oscar, Coutinho, Alisson con il quale sono sempre in contatto. Di amici ne ho cinque, due qui e tre in Brasile e non sono del mondo del calcio. Tra i compagni sto benissimo con Bryan Cristante, andiamo anche a cena insieme, però dopo un po’ c’è sempre il rischio che le strade si dividano. Quando di brasiliani c’eravamo io, Emerson, Castan, Gerson, Bruno Peres e Alisson una volta ho detto loro ‘noi non siamo amici, siamo compagni di squadra’. Con Alisson mi vedevo tutti i giorni anche le nostre mogli, era un’amicizia molto stretta, adesso abbiamo perso un po’ di contatto ma è normale, abbiamo due vite diverse”.
Come hai vissuto il periodo di isolamento?
“È stato impegnativo restare tutti per così tanto tempo in casa. Personalmente mi ritengo sempre molto fortunato, avendo il giardino ho goduto di uno spazio di sfogo. Sono fortunato anche perché faccio questo lavoro che prendo sempre come una benedizione, non posso lamentarmi di nulla ma ovviamente sono dispiaciuto perché non ci siamo potuti allenare e abbiamo dovuto abbandonare la nostra routine. Quello che conta però è la salute delle persone, quindi ho cercato di viverla con un atteggiamento più positivo possibile. È brutto pensare che anche per i prossimi mesi il nostro sport e anche tutti gli altri non potranno più essere un motivo per radunare e far stare insieme le persone, ma visto che è per salvaguardare la salute dei più deboli è una cosa che va accettata”.
C’è qualcosa che hai fatto in questo periodo che prima non avevi mai fatto?
“Ho imparato a fare tante cose come i cheesecake e altri dolci. Ho fatto giardinaggio, ho comprato tanti attrezzi anche per tagliare le siepi. Ho sistemato casa, la dispensa, lo spogliatoio della piscina. Ho cercato di inventare nuovi giochi per mio figlio, gli ho letto dei libri e la Bibbia”.
A livello di videogiochi e serie tv come hai passato il tempo?
“Ho giocato un po’ con l’X-Box online con un amico di Milano e gioco con lui on line, ad Apex. Di serie TV ne ho viste tantissime. Con mia moglie abbiamo visto tutte e tre le stagioni di Designated Survivor in due settimane. È una serie bellissima sulla politica, un po’ simile ad House of Cards. Ora sto guardando La casa di carta. Prima ancora ho visto Queen of the South, con un’attrice brasiliana che interpreta una messicana che lavora per un cartello, diciamo del genere di Narcos”.
Con la tua famiglia in Brasile sei in contatto tutti i giorni?
“Sì, sono chiusi in casa ma grazie a Dio stanno tutti bene. Poi mia mamma è a rischio, ha una certa età e ha il diabete. Mia sorella ogni tanto deve lavorare ma si prende sempre cura di tutto. Però purtroppo la situazione lì è più difficile e gli ospedali sono meno preparati rispetto all’Italia. Spero che questa emergenza del coronavirus possa rientrare presto”.
La Società e lo staff sono sempre stati in contatto con voi in questo periodo?
“Sì, ho seguito gli allenamenti settimanali che ci mandava lo staff prima di avere di nuovo la possibilità di tornare a Trigoria. In tutto il periodo la Società è stata brava ad aiutare i dipendenti, noi calciatori e le nostre famiglie, oltre alle tante iniziative realizzate per la città. Stanno facendo di tutto per mantenere la nostra salute al sicuro e per farci mantenere la forma, ora che siamo potuti tornare in campo ci stiamo avvicinando a quello che siamo abituati a fare tutti i giorni anche se solo a livello individuale. La Società ci ha seguito e sta continuando farlo a 360 gradi”.
Com’è stato poter ritornare a Trigoria?
“Il ritorno è stato un po’ strano, eravamo abituati a salutarci, scherzare, abbracciarci. Ora invece dobbiamo rimanere a distanza. Anche nel lavoro mi mancano tanto le esercitazioni di gruppo sul possesso palla. Per ora la situazione è questa ma gli allenamenti stanno andando bene, stiamo rimettendo benzina in corpo per farci trovare pronti”.
Una curiosità: nel giorno dell’anniversario di Roma-Barcellona hai pubblicato un racconto emozionante del prepartita: com’è nata l’idea?
“Ho raccontato le mie emozioni, ma per poterlo scrivere così mi è servito l’aiuto di un mio amico, altrimenti non avrei saputo scriverlo così bene in italiano. Sono passati due anni e volevo ricordare quella vittoria con qualcosa di bello. Lui mi ha chiesto come stavo nello spogliatoio, cosa sentivo, io glielo raccontavo passo dopo passo ed è venuto fuori un bel pezzo. Quella partita rimarrà per sempre nel mio cuore e nella storia della Roma”.
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