Roma l’ha assaporata e immaginata solo tre mesi, Firenze l’ha vissuta per cinque anni. Il destino della carriera di Cesare Prandelli è stato indirizzato da queste due città. Fosse rimasto in giallorosso, magari avrebbe potuto fare come Luciano Spalletti per i quattro anni successivi (“e un pezzettino”) e diventare immortale. Aprendo un ciclo e proponendo un grande calcio con le versioni migliori di Totti e De Rossi. Non andò così. La sua vetrina più prestigiosa è stata la Fiorentina, il trampolino di lancio che poi l’ha portato a diventare commissario tecnico della Nazionale, dal 2010 al 2014. “Quando torno sull’argomento dell’esperienza a Roma lo faccio sempre con sentimenti contrastanti, non so nemmeno io perché. Firenze, la Fiorentina, sono stati gli anni probabilmente migliori anche se a Lecce, Verona, Venezia e Parma pure mi ero divertito parecchio”, le parole Prandelli al Match Program del club giallorosso.
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Prandelli: “De Rossi sarà un ottimo allenatore. Totti e Mutu i migliori che ho allenato”
"Si capisce da come commenta il match nel post partita, dalle cose che dice, da come parla, dalla capacità analitica molto fredda e lucida", le parole del tecnico
Arrivò nella Capitale nell’estate 2004, dopo l’addio di Fabio Capello. Doveva raccogliere un’eredità pesante, ma sorretto da un ambiente compatto al suo fianco. Poi?
“Poi è andata come sapete. La malattia di mia moglie, la decisione di mollare tutto prima che iniziasse il campionato. Durò poco più di tre mesi, ma ancora oggi resta una sensazione meravigliosa. La famiglia Sensi mi dimostrò grande vicinanza, così come Franco Baldini che ancora oggi sento regolarmente e reputo un amico. Mi resta in mente una città bellissima e una squadra con potenzialità molto importanti e margini inesplorati”.
Un giocatore espressione di quelle potenzialità?
“Dico sicuramente Aquilani. Alberto era un centrocampista con qualità enormi: eleganza, forza fisica e visione di gioco. Sapeva fare tutto. Non a caso dopo la Roma ha vestito le maglie di Liverpool, Juventus e Milan”.
De Rossi, invece, lo ha avuto in due fasi. La prima a ventuno anni in quella breve parentesi romanista, a inizio carriera ma sul punto di spiccare il volo dopo la cessione di Emerson alla Juventus. Successivamente, in Nazionale da calciatore più maturo e leader riconosciuto.
“È stato uno dei primi centrocampisti italiani veramente moderni. Ha interpretato il ruolo con caratteristiche uniche, da ex attaccante. Era in grado di recuperare tanti palloni e di rigiocarli con la stessa qualità. Faceva pure gol con regolarità. Per me sarebbe stato pure un ottimo difensore centrale, sia in una retroguardia a tre sia in una linea a quattro. In Nazionale l’ho schierato più volte in quel ruolo e Daniele non ha mai deluso. Oggi è una sicurezza, anche se ha trentacinque anni. E poi di lui mi colpisce pure un altro aspetto…”.
Quale?
“Lo vedo davvero come un ottimo allenatore in futuro. Si capisce da come commenta il match nel post partita, dalle cose che dice, da come parla, dalla capacità analitica molto fredda e lucida. Lui vive le gare con furore, ma quando finiscono i novanta minuti dà grandi dimostrazioni di equilibrio e competenza. Questa è una dote molto importante, non da sottovalutare. È maturo per iniziare un percorso da tecnico”.
Le dispiace non aver allenato Totti al top delle capacità tecniche e fisiche, a 28 anni?
“Ebbi la possibilità di averlo alle mie dipendenze per una settimana sola, prima del mio addio. Persona straordinaria e calciatore impressionante non tanto per la tecnica e la capacità di calcio, che quelle sono cose note a tutti, ma per un’altra qualità…”.
Ovvero?
“Il gioco di prima. Vedeva spazi e traiettorie che non erano pensabili, ma lui le semplificava in modo disarmante. Quando lo vedevamo all’opera, io e i miei collaboratori, restavamo colpiti da questa sua immensa dote di giocare il pallone senza nemmeno vedere il posizionamento del compagno. Lui sapeva già dove mettere la palla, con precisione estrema”.
Uno che si avvicinava a quella qualità l’ha più incontrato nelle fasi successive?
“Forse Mutu, anche se aveva qualità diverse. Posso dirlo tranquillamente, Adrian è stato uno degli attaccanti migliori che ho avuto modo di allenare nella mia vita. Faceva discutere sui giornali per alcuni atteggiamenti fuori dal campo, ma in campo non tradiva mai”.
Minacciò di dimettersi da tecnico della Fiorentina quando Mutu stava per passare alla Roma, nell’estate 2008?
“Falso, una storia ingigantita dalle varie ricostruzioni nel corso del tempo”.
Cosa successe, allora?
“Stavamo per giocare il preliminare di Champions League, contro lo Slavia Praga. Mancavano circa dieci giorni all’appuntamento. Una mattina viene Mutu e mi dice: “Mister, per me oggi sarà l’ultimo allenamento con la squadra. Con il club abbiamo trovato un accordo con la Roma”. Io restai perplesso, non ne sapevo niente. Chiamai così il vicepresidente Cognigni per saperne di più e lui mi chiese un parere. Risposi che non sarebbe stato il caso di cedere un giocatore così importante a pochi giorni da un appuntamento europeo cruciale come quello di un preliminare di Champions League. L’operazione si poteva pure fare, ma magari dopo quella partita. O cederlo a inizio mercato, come Corvino mi aveva anche fatto capire che sarebbe successo se fossero arrivate offerte. Io indicai pure il nome di un sostituto…”.
Lo può svelare?
“Totò Di Natale. Sembrava in uscita dall’Udinese ed era il calciatore che più di altri poteva sostituire nella mia testa un top player come Mutu. L’affare con la Roma, comunque, naufragò e Adrian restò con noi, risultando decisivo pure nel preliminare segnando un gol importante”.
A proposito di attaccanti, un centravanti in comune tra Fiorentina e Roma è stato Osvaldo. Lui segnò il gol Champions per i viola a Torino nel 2008. E lei in panchina.
“In rovesciata, con una giocata da applausi a scena aperta. Daniel l’ho voluto anche in Nazionale nel mio periodo perché era una punta di qualità eccelse. Coraggio, tecnica, freddezza, mobilità: non gli mancava nulla. Un prototipo dell’attaccante del nuovo millennio, capace di svariare su tutto il fronte. Peccato per quel demone dentro di lui che l’ha portato a smettere molto presto con il calcio. Poteva fare di più, ma molto molto di più”.
Se dovesse citare un Fiorentina-Roma del suo periodo che non ha dimenticato?
“Mi viene in mente lo 0-0 del 18 marzo 2007. Risultato non memorabile, ma il nostro atteggiamento offensivo fu premiato. Restammo in dieci uomini nel primo tempo per un’espulsione di Dainelli. Non tolsi un attaccante, ma restai con un 4-3-2 che sorprese la Roma di Spalletti. Belle sfide con Luciano, la tattica e lo spettacolo non mancavano mai”.
Parlando di lei, come si prepara un tecnico disoccupato in vista di un nuovo incarico?
“Analizzando, studiando, aggiornandosi. Penso di restare in Italia, di non accettare più offerte dall’estero. Comunque, vedo tante partite e cerco di capire in che direzione va il calcio. E un’idea me la sono fatta”.
E dove va il calcio?
“Ci apprestiamo a vivere un’epoca post moderna di questo sport. Va rimesso il talento al centro del pensiero comune. La qualità del singolo va esaltata e non repressa negli schemi tattici. È allarmante che i migliori calciatori del campionato italiano siano sempre stranieri e mai nati in questo paese. Vengono a mancare gli interpreti più forti, i numeri dieci, per questo in Nazionale ci sono difficoltà. Mi dica lei un giocatore bravo nell’uno contro uno presente nel nostro torneo e nato in Italia…”.
Federico Chiesa?
“Vero, e anche Federico Bernardeschi. Mi piace anche Barella, ma sono pochi e una nazione come la nostra dovrebbe essere contaminata di talenti. Riportando la qualità al primo posto nei pensieri degli istruttori e degli allenatori, sono sicuro che rivedremo fuoriclasse come Totti, Del Piero, Baggio. Gente così”.
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