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Spalletti-Di Francesco, atto secondo: l’eterna lotta tra il presente e passato della Roma

Luca Benincasa Stagni

L’impressione è che ad essere cambiata nell’avvicendamento tra il toscano e l’abruzzese, oltre alla guida tecnica, sia l’anima della squadra. Da una parte la "fame" di Spalletti, che pungolava i calciatori 24 ore su 24. Il risultato emblematico di quel pensiero fu Dzeko, che divenne capocannoniere della serie A e si trasformò da timido cigno in feroce leone. In quella Roma si vedevano gli occhi dei guerrieri, almeno fino a quando la squadra non si spompò con il primo caldo primaverile.

Lo stesso non si può dire per la versione giallorossa di Di Francesco, che se passa in svantaggio non vince mai. Il mantra del tecnico è la resilienza: ci si piega, ma l’importante è non spezzarsi. La sensazione, però, è questo concetto alla lunga abbia tolto convinzioni. Alla prima difficoltà, i giocatori sembrano accontentarsi del minimo. Ne è prova il comportamento contro Sassuolo e Atalanta, le due ferite più recenti. Contro i neroverdi la Roma si è fermata dopo l’1-0 per ripartire solo dopo il pareggio di Missiroli, quando ormai era troppo tardi. Con l’Atalanta per 45’ è rimasta succube mentalmente dei nerazzurri. L’unico a reagire fu Kolarov, che ne mandò a dire a tutti in campo. L’immagine del serbo è ciò da cui deve ripartire Di Francesco.

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