L’impressione è che ad essere cambiata nell’avvicendamento tra il toscano e l’abruzzese, oltre alla guida tecnica, sia l’anima della squadra. Da una parte la "fame" di Spalletti, che pungolava i calciatori 24 ore su 24. Il risultato emblematico di quel pensiero fu Dzeko, che divenne capocannoniere della serie A e si trasformò da timido cigno in feroce leone. In quella Roma si vedevano gli occhi dei guerrieri, almeno fino a quando la squadra non si spompò con il primo caldo primaverile.
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Spalletti-Di Francesco, atto secondo: l’eterna lotta tra il presente e passato della Roma
Lo stesso non si può dire per la versione giallorossa di Di Francesco, che se passa in svantaggio non vince mai. Il mantra del tecnico è la resilienza: ci si piega, ma l’importante è non spezzarsi. La sensazione, però, è questo concetto alla lunga abbia tolto convinzioni. Alla prima difficoltà, i giocatori sembrano accontentarsi del minimo. Ne è prova il comportamento contro Sassuolo e Atalanta, le due ferite più recenti. Contro i neroverdi la Roma si è fermata dopo l’1-0 per ripartire solo dopo il pareggio di Missiroli, quando ormai era troppo tardi. Con l’Atalanta per 45’ è rimasta succube mentalmente dei nerazzurri. L’unico a reagire fu Kolarov, che ne mandò a dire a tutti in campo. L’immagine del serbo è ciò da cui deve ripartire Di Francesco.
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