Josè Mourinho recita l’atto di dolore. Lo recita forte e chiaro: “Questa non è la stagione per attaccare gli obiettivi in classifica, con un contratto di 3 anni questa può essere una stagione di dolore ma è molto molto importante per capire qualcosa che non ho capito prima di arrivare”. Lo Special One chiede di conseguenza un Atto di Fede. A tutta la piazza romanista, e forse anche a sé stesso in attesa di un doppio mercato che dovrà necessariamente rinforzare una rosa che - Mourinho o non Mourinho - ha più elementi deboli di un complesso musicale senza strumenti. Nessuno qui vuole salvare il tecnico da critiche necessarie. Perché l’atto di dolore ci sta, l’umiliazione no. E quelle con Bodo e Venezia sono sconfitte umilianti, enormi visti i valori delle rose in campo. Al netto di errori arbitrali altrettanto umilianti, altrettanto dolorosi.
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Roma, ora serve un atto di fede
In Italia fa piacere che la Roma non alzi mai la voce. Che resti in quel limbo di galleggiamento in cui è facile fare i complimenti perché è difficile vedere i rischi di una ricostruzione
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È fastidio, invece, quello che si prova a fare da settimane appena Mourinho lascia gli studi televisivi. Perché dopo 12 giornate c’è la corsa a chi critica (difficilmente di persona) il portoghese in modo più originale. E non si parla della famigerata piazza romana, ma di quei media nazionali che per anni hanno tollerato a oltranza anche l’intollerabile. Tra chi paragonava in diretta televisiva Dodò a Cafu e chi giustificava Fonseca o Di Francesco fino all’ultimo giorno possibile, anche dopo le figuracce con Fiorentina o Spezia. Chiaro: mettere il nome di Mourinho fra i nemici fa più audience, appaga di più le mancanze di personalità e gli spazi di pubblicità. Ma non è solo questo. In Italia fa piacere che la Roma non alzi mai la voce. Che resti in quel limbo di galleggiamento in cui è facile fare i complimenti perché è difficile vedere i rischi di una ricostruzione. Perché diciamocelo: la Roma non fa seriamente paura da tanto tempo. Da quando i Sensi provarono a costruire qualcosa di colossale passando per diverse fasi: la ricostruzione tecnica, il mettere in guardia sugli arbitraggi, l’arrivo di un top come Capello e un primo anno di dolore terminato con lo scudetto della Lazio. Era una Roma enormemente più forte di questa, e aveva un presidente che voleva vincere a tutti i costi. È solo questo che deve alimentare oggi le paure dei tifosi. Non la presenza di un allenatore che vorrebbe il club fuori da quel limbo di falsi complimenti e veri lacché.
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