Bruno compie 70 anni. A Roma mettere il cognome è inutile. “Perché di Bruno ce ne è uno e viene da Nettuno”. Perché quando diventi leggenda non serve specificare altro soprattutto quando il termine non è inflazionato dalle mode del momento, da telecronisti sempre alla ricerca della réclame, da social che eleggono a provvisori miti pure paparazzi, urlatori coatti ed esperti di pronostici. Bruno una leggenda lo è davvero, e lo è senza tempo. Lo è per il nonno che l’ha visto crescere perché “il ragazzo si farà anche se ha le spalle strette”, il papà che si è goduto da piccolo lo scudetto del 1983 e ha pianto per la finale con il Liverpool, per il figlio che ha assaporato la fine della sua carriera negli anni ’90 e l’ha visto da allenatore salvare la Roma da una retrocessione probabile, per il nipote che ha goduto dei giocatori nati dalle sue intuizioni da responsabile delle giovanili.


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Di Bruno ce ne è uno
Ha preso tutte le generazioni Bruno, come Vasco Rossi o Alberto Sordi. Come Maradona o Totti. Il paragone non sembri esagerato. Marazico era a quel livello da calciatore. Ma non si è fermato a quello. Ha passato 52 anni a Trigoria combattendo contro venti avversi, voglie di cambiamento e invidiosi di cotanta gentilezza. Lo ha fatto senza creare mai polemica, ma imponendo la superiorità della sua competenza e facendosi amare da tutti: ex compagni, presidenti (quasi tutti), allenatori e nuovi giocatori. Fuori Trigoria Bruno è decisamente lontano dalla definizione “celebrità”. Si unisce come un personaggio di Trilussa alle pieghe di una città in cui si confonde tra la statua di Pasquino e la Bocca della Verità. Eterno, ma al tempo stesso sempre moderno. Sempre ragazzo coi capelli al vento, il sorriso sornione, la voce rauca e lo sguardo attento. Settanta anni? No, alle leggende non si guarda mai la carta di identità. Quindi gli auguri ce li teniamo per un altro giorno, quando esulterai col bottiglione di Champagne ancora per la tua Roma. Come in quel maggio del 1983. Come quando con un dribbling hai mandato a gambe all’aria pure un brutto male. Lo hai guardato per terra, quasi stupito. Con quel sorriso sornione. “Ma che me volevi leva la palla?”.
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