(di Paolo Marcacci) Partiamo dal presupposto che quello che tu trovi naturale fare per loro, in termini di dedizione e sacrificio, di rinunce e stati d'animo, loro non si sognerebbero mai di farlo per te.
rubriche
L'ISTANTANEA di fine anno: Tu e “loro”, il Capodanno dei tifosi
(di Paolo Marcacci) Partiamo dal presupposto che quello che tu trovi naturale fare per loro, in termini di dedizione e sacrificio, di rinunce e stati d’animo, loro non si sognerebbero mai di farlo per te.
"Loro" sono i calciatori, che forse un tempo sono stati come te ma hanno presto disimparato, perché costretti, cosa voglia dire star male, o benissimo a seconda dei casi, "per" il pallone; loro che sono tutto quello che sono "grazie" al pallone, come seppe capire e dimostrare quel grande calciatore sudamericano, non ricordo il nome, che a fine carriera davanti alla sua villa fece costruire un monumento ad una palla con sotto la scritta "Grazie, vecchia mia".
Da quelle parti, usano il genere femminile "A bola", come si trattasse di un amore, per indicare l'attrezzo del mestiere.
Perchè anche all'epoca era un mestiere, ma ringraziare la palla voleva dire, per traslato, dire grazie alla gente per un destino fortunato, che attraverso il talento dava gloria, emozioni (più di ora, forse), ricchezza (meno di ora, certamente) e infine una sorta di laica immortalità: se sei un calciatore, non necessariamente grande e non per forza vittorioso, anche quando avrai la dentiera e camminerai a fatica, tutti ti ricorderanno sempre con i calzoncini, il fisico affilato e i quadricipiti bene in vista, su uno sfondo d'erba e di folla. Nessun calciatore dei tempi passati, per ingnorante che fosse, ha mai dimenticato questo dono e questa lezione.
Dalle mie parti, uno che si chiama Francesco Totti dimostra ancora oggi di ragionare come quei calciatori, anzi giocatori, di un'epoca romantica. Ma stiamo divagando, forse. Parlavamo di te, che con gli anni non sei cambiato, fondamentalmente: ci hanno provato in tutti i modi, predendo per le orecchie il meglio delle tue abitudini, ma al fondo della questione rimani sempre tu, che muori ogni volta per un rigore parato e ogni volta rinasci per un risultato riacciuffato fuori casa, magari nei minuti di recupero.
Qualche ora dopo, mentre "loro" hanno bisogno di staccare la spina e di rimuovere al più presto tutti i residui di quelle tensioni, magari in qualche locale di quelli dove tu non entrerai mai, magari circondati da occhi che tu vedi solo nelle copertine dei rotocalchi, tu sei ancora lì che ci pensi, scontroso e taciturno con chi ti vuol bene e proprio perché ti vuol bene sa che è meglio lasciarti stare, dopo quel rigore parato.
O sa che se sei più allegro e paziente è per merito di quel pareggio riacciuffato, stesse facce della medaglia della tua malattia. Coi tuoi chilometri percorsi (quando ti permettevano di percorrerli) molte volte invano, i tuoi pomeriggi o sempre più spesso le tue nottate mal mangiate e digerite peggio; ma anche semplicemente con la rabbia con cui faresti a pezzi il televisore o la gioia con cui lo abbracceresti, tu rimani quello di sempre, quello che chi non sa e non prova non potrà mai capire. Qualcuno ti compatisce addirittura.
Ma tu sei tutt'altro che scemo, anzi: sei semplicemente consenziente alla tua follia, ci sei sceso a patti da bambino e il patto durerà per tutta la vita, magari anche oltre, come hanno capito le agenzie funebri che hanno cominciato a proporti il feretro con il logo del club, in qualche posto del mondo. E non dire che l'idea non ti inorgoglirebbe, pensando al giorno più lontano possibile.
Ti rimproverano di non ricordare neppure la lista della spesa ma di non sgarrare di un minuto quando devi raccontare quello che accadde in una semifinale di venti anni fa; soprattutto se l'hai persa, forse. Perché tutto quello che è accaduto nella tua vita, quello che l'esistenza ti ha fatto perdere o conquistare, assieme al destino l'hanno scandito gli arbitri, le papere dei portieri, il guizzo dei tuoi attaccanti al momento giusto, qualche invasione di campo. L'ha già descritto un inglese, uno dell'Arsenal, molto meglio di me, tutto questo. Ma ogni volta ripensarci fa quasi paura, perché è la testimonianza della tua grandezza.
Nessuno che non faccia parte della tua tribù potrà mai capire, meno che mai un calciatore, a meno che faccia parte dei sempre più rari che non hanno dimenticato, come quello che ho nominato prima. Ecco perché in questi giorni fa schifo e fa rabbia vedere quelle facce, nascoste dagli occhialoni e dai cappucci, che non hanno saputo rispettare neppure se stessi, oltre al fatto di essersi creduti più intelligenti o più furbi di quello che sono. Prima ancora di ingannare le regole, hanno ingannato te e questo, lo capirebbe anche o soprattutto un bambino, è il reato più grave: hai sempre fatto di tutto per meritare l'esatto contrario.
Il fatto è che continuerai a farti venire i bruciori di stomaco, ad avere le palpitazioni per gente che in qualche caso non vorresti neppure come vicina d'ombrellone, se non fosse che ti rappresenta quando porta addosso quella stoffa speciale, che per te varrà sempre di più di uno smoking. Sai tutto e hai aperto gli occhi da un sacco di tempo, qualche volta riesci persino a definirti disincantato; ma hai messo tutto in un conto che non presenterai mai: se non è amore questo, l'amore allora non esiste. Neppure Dante a Beatrice ha riservato una dedizione come la tua.
Per tutto quello che ancora ti deluderà, per ogni disincanto del futuro, per ogni mezza vittoria che basterà a cancellare rancori e frustrazioni; per ogni volta che ti si fermerà il respiro nell'istante in cui si alza una coppa e per un milione di motivi ancora... Buon anno, tifoso come me.
© RIPRODUZIONE RISERVATA