Chissà dove stava Carlo Tavecchio la sera in cui Dani Alves, il difensore brasiliano del Barcellona, raccolse la banana lanciata in campo dai tifosi del Villarreal e se la mangiò quasi sogghignando. Quel gesto, così intelligente nella sua semplicità, ha fatto storia. E’ diventato lo spot universale contro la volgarità razzista che impesta gli stadi europei e italiani. Ma il candidato presidente della Figc dev’essersi mancato pure l’intero dibattito che ne è seguito visto che venerdì, nel suo fluviale discorso della corona, proprio su una buccia di banana è scivolato con fragorosa goffaggine. Ora è il suo mitico «Opti Poba è venuto qua che prima mangiava le banane e adesso gioca titolare nella Lazio» a fare il giro del web e dei social network. A sollevare un’onda di giustificata indignazione.
rassegna stampa
Adesso Tavecchio faccia un passo indietro
I Presidenti dovrebbero chiederglielo ma è difficile che lo faranno a meno che non li costringa la voce dura di qualche imprenditore che vive il calcio come passione, non come affare.
E, diciamolo con chiarezza, a squalificarlo senza appello per la carica a cui aspira. Tavecchio, naturalmente, fa sapere che a rinunciare non ci pensa nemmeno. Anzi che è amareggiato - lui! - per il peso che si è dato alla sua uscita, pochi secondi in un discorsone programmatico durato due ore, roba che nemmeno Fidel Castro... Intanto, dal fronte che lo ha plebiscitariamente indicato nonostante l’opposizione della Gazzetta e di gran parte della pubblica opinione, viene una difesa militare. Beretta e Macalli parlano di strumentalizzazione. Ricordano l’impegno di Tavecchio in difesa dei più deboli. Gli ospedali in Africa e le sue tre adozioni a distanza. Ne prendiamo atto, nessuno vuol fargli la morale. E’ il concetto che non può e non deve passare. Sarà pure un buon diavolo, nei bar del nord ce ne sono tanti come lui, ma la sua frase non è solo un bisticcio di parole. E’ l’indice di una forma mentis che allinea l’extracomunitario all’uomo nero, quindi alla scimmia, quindi alle banane. Un pensiero primordiale, insinuante, pericoloso, censurabile anche dopo una partita a carte. Figuriamoci quando ambisci alla guida dello sport più amato e all’enorme responsabilità sociale che ciò comporta.
Sul razzismo, sui buu e sugli insulti fuorilegge proprio la Federcalcio di Giancarlo Abete si è trovata a combattere una dura battaglia con il popolo ultrà. Le curve di molti stadi importanti sono state chiuse a ripetizione per le pene inflitte dal giudice sportivo in base alla celebre e forse troppo criticata discriminazione territoriale. Persino un ragazzino che ha chiamato l’avversario “vu cumprà” è stato squalificato per dieci giornate e mandato ai servizi sociali. Ora chi glielo spiega, a lui e alle migliaia di ultrà inveleniti sul web, che le punizioni saranno severe anche se il presidente federale la pensa più o meno come loro?
Non fingiamo, per cortesia, di trovarci davanti una questione di opportunità. Qui c’è un serio problema di credibilità delle istituzioni. E siccome il futuro che ci attende negli stadi non è roseo, che forza di interlocuzione e censura potrebbe avere contro il tifo becero e razzista un uomo che ha accostato le banane ai giocatori extracomunitari? Nessuna. Rischierebbe solo di rimanere ostaggio di una frase per tutta la durata del mandato. Così come sarebbe svuotato di qualsiasi autorevolezza nel rappresentare il nostro calcio a livello internazionale davanti alla Fifa di Blatter e alla Uefa di Platini che da tempo hanno avviato una battaglia serrata contro il fenomeno razzista. Stadi chiusi e giocatori squalificati fanno parte di una tolleranza zero che viene portata avanti in maniera massiccia anche a livello di comunicazione. Ripetiamo: pure a Blatter, Platini, Rummenigge - e a Thuram, Seedorf, Boateng, Vieira, etc - chi glielo spiega “Opti Poba”?
C’è solo da sperare che Carlo Tavecchio veda l’enormità del buco in cui si è ficcato e si convinca a fare spontaneamente il passo indietro che una vera e propria rivolta popolare sulla Rete sta invocando. In caso contrario, a fermare la sua corsa dovrebbe provvedere l’ampio fronte che lo ha candidato, cominciando dalle Leghe di A e di B, dagli strateghi della continuità come Lotito, Galliani e Abodi. Dubitiamo che lo faranno a meno che non li costringa la voce dura di qualche imprenditore che vive il calcio come passione, non come affare. Ce ne sono, e sappiamo che sono sdegnati quanto noi. Si facciano sentire ora, o dovranno tacere per sempre.
Quanto alla Gazzetta, purtroppo, non partecipa al voto per l’elezione del presidente federale. Fosse stato per noi, e per tante altre persone di buon senso, non saremmo in questo pasticcio. Per settimane abbiamo inutilmente sostenuto che nell’anno zero del calcio italiano, dopo il disastro mondiale e l’omicidio di Ciro Esposito, bisognava fare piazza pulita dei vecchi poteri e metter mano a riforme profonde. Abbiamo aggiunto, facili profeti, che le conseguenze di un mancato rinnovamento sarebbero state disastrose. L’unica sorpresa è la velocità perentoria con cui l’Ancien Régime ha saputo autoaffondarsi. Sul fatto che Tavecchio, con i suoi alleati, non avesse le carte in regola per rinnovare il nostro movimento calcio siamo stati chiari sino alla noia. Ora che la conferma ce l’ha fornita lui stesso gli chiediamo, con tristezza e senza arroganza, di farsi da parte.
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