rassegna stampa

Re Luis Enrique respinto da Roma e padrone d’Europa

Nella Capitale era un progetto che aveva bisogno di fiducia e pazienza. A Roma non gli hanno concesso né l’una né l’altra. E così Luis ha portato altrove il suo calcio, fatto di regole ferree, demo-meritocrazia, corsa e palleggio

Redazione

Non li avevano capiti, all’inizio. E alla fine si sono ritrovati a giocarsi l’Europa uno contro l’altro, gli ultimi allenatori rimasti in corsa. Luis Enrique ha vinto, ma Massimiliano Allegri non ha perso.

Ricordate l’Enrichetto romano? Passeggiava per Trigoria chiedendosi: «A Brunico i tifosi mi urlavano di far correre i giocatori. Perchè allora si sono scandalizzati la prima volta che ho sostituito Totti che non correva?». Si sforzava di capire, ma faceva una fatica tremenda: «Se tengo fuori Totti o De Rossi, succede l’inferno. Perché non succede con Curci?». È su queste due colonne che ha provato a rifondare l’impero romano. Primo: «Trabajo y sudor». Tutti devono correre e tanto. Secondo: tutti i giocatori sono uguali davanti al mister, come davanti alla legge.

Sulle stesse colonne Luis Enrique ha edificato anche il suo Barcellona campione d’Europa. Infatti Messi e Neymar, come Totti, non riuscivano a capacitarsi di essere trattati come i compagni meno baciati dalla grazia. Ma lo sport è democratico per costituzione, la meritocrazia spiana i privilegi e stila le gerarchie. Perché è vero che il tridente delle meraviglie ha trascinato il Barcellona verso il Triplete, ma è anche vero che il gol che ti spalanca una finale, il più difficile, può segnartelo un Rakitic, il più «normale» dei tuoi giocolieri.

Alla Roma proprio non riuscivano a capirlo un concetto del genere. E non capivano tante altre cose di Luis Enrique. Come faceva intendere De Rossi raccontando: «Abbiamo capito che il possesso palla non ci portava da nessuna parte e abbiamo pensato a qualche correttivo». In altre parole: ci siamo rotti del tiqui taka, abbiamo scaricato il mister e abbiamo fatto di testa nostra.

Ma quel palleggio insistito fino all’ostinazione era un modo per educare una mentalità, per trasmettere conoscenze e sicurezze a una squadra che doveva imparare a vincere. Chi tiene palla, si sente forte. È così che è diventato grande il Barcellona.

Una sera a Londra, scherzando con Franco Baldini, imminente d.g. della Roma, facevamo notare che Luis Enrique sembrava tanto il farmaco generico che costa meno di quello di marca, ma contiene lo stesso principio attivo: il Barcellona. Baldini precisò che non si trattava di prezzo, ma di messaggi. Guardiola ne avrebbe trasmesso uno sbagliato: vincere subito. Il rampante Luis Enrique, pescato nella cantera catalana, era invece lo spot di un progetto che aveva bisogno di fiducia e pazienza. A Roma non gli hanno concesso né l’una né l’altra. E così Luis ha portato altrove il suo calcio, fatto di regole ferree, demo-meritocrazia, corsa e palleggio. Ha reso più verticale il palleggio di Guardiola, ma non ha rinunciato all’arte squisita del ricamo corto, come ha dimostrato ieri la splendida azione del primo gol. L’incompreso dell’Urbe oggi è sul trono d’Europa, dopo aver schiantato il maestro Guardiola. Allegri, altro incompreso, lo ha impegnato di più. Ricordate cosa disse di lui Berlusconi durante un comizio in Veneto, alla vigilia di un Milan-Barcellona? «No el capisse un casso...». Ne capisce, ne capisce. E lo ha dimostrato in una finale giocata alla grande, arrivando a un passo dal Triplete. Forse ora lo ha capito perfino Silvio.