La dittatura del portiere ha le ore contate. Sono in aumento gli allenatori che prediligono l’alternanza. Tra questi, Roberto Mancini. Come e più del predecessore, Walter Mazzarri, l’attuale allenatore dell’Inter ha lasciato il campionato al titolare, Samir Handanovic, e affidato l’Europa League alla riserva, Juan Pablo Carrizo. E’ lo stesso metodo che stava portando avanti, alla Roma, Rudi Garcia: Morgan De Sanctis per le zuffe domestiche, Lukasz Skorupski sul fronte internazionale. Alla vecchia scuola rimane fedele la Juventus: campionato o Champions, sempre e comunque Gigi Buffon. Con Marco Storari «abbonato» alla Coppa Italia.
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Portieri, è l’era dell’alternanza
L'alternanza tra De Sanctis e Skorupski alla Roma, e tra Handanovic e Carrizo all'Inter, fa sorgere una domanda: che sia tramontata l'era in cui il portiere titolare era uno e, infortuni e squalifiche permettendo, giocava tutte le partite?
Finché le cose vanno bene, hanno ragione tutti: sia i fanatici della tirannide, sia i sostenitori della democrazia. Viceversa, quando ci scappano errori gravi (Carrizo, Skorupski), comincia il giro delle mozioni: era proprio il caso? E’ corretto pensare che siano tutti uguali? E nello specifico interista: se Mauro Icardi gioca sempre, perché non può giocare sempre, a maggior ragione, Handanovic? L’argomento coinvolge tattica, storia, cultura.
La prima società ad alto livello a praticare la staffetta dei portieri - in Italia, almeno - fu il Milan di Silvio Berlusconi e Arrigo Sacchi. Giovanni Galli e Andrea Pazzagli si trovarono, per scelta, l’uno davanti all’altro, e poi, un po’ per caso e un po’ per vezzo, l’altro sostituto dell’uno. Era un Milan così diverso e così forte che poteva permettersi tutto: anche di giocare senza portiere, provocazione cara ad Arrigo; oppure, nella versione più castigata, con uno qualsiasi dei due. A quei tempi, e sino al confine degli anni Novanta, i calendari erano più umani e il rischio di infortuni e/o squalifiche meno drastico. Il regolamento garantiva ai difensori un potere enorme che, di riflesso, coinvolgeva i portieri. All’ospedale finivano gli avversari, come Giancarlo Antognoni, travolto da Silvano Martina; come Patrick Battiston, abbattuto da Tony Schumacher; come Bruno Mora, speronato da Giuseppe Spalazzi. Da Massimo Piloni a Giancarlo Alessandrelli, le riserve di Dino Zoff furono condannate per «non» aver commesso il fatto. Traduzione: per non aver mai, o quasi mai, giocato.
Dopo il ‘90 c’è stata la svolta. Le televisioni, in cambio delle montagne di quattrini che distribuivano, hanno preteso calendari obesi. Complice la Fifa, il potere è passato agli attaccanti, e la professione del portiere ne è uscita meno tutelata: all’ospedale hanno cominciato ad andarci loro, da Petr Cech in giù. E così, piano piano, l’unico insostituibile è diventato uno dei tanti sostituibili. Penso a Diego Lopez e Iker Casillas nel Real Madrid di José Mourinho e Carlo Ancelotti. Una fetta di torta a testa, e via andare. Non più casi isolati; e quasi mai riconducibili all’evoluzione secca del ruolo. Come se gli allenatori moderni non si fidassero più della dottrina dei loro padri: sostituisci tutti, meno il portiere; come se la reputazione della scuola fosse precipitata su standard talmente ambigui da scoraggiare la spaccio di gerarchie fisse.
Capisco l’incubo di un infortunio in un momento topico della stagione, e dunque l’esigenza di tenere sempre calda l’alternativa, ma l’Inter con il Wolfsburg si giocava molto più che con il Cesena; e con i tedeschi c’era Carrizo, non Handanovic. «Io farei sempre giocare il numero uno - dichiara Dino Zoff - ma evidentemente c’è chi coltiva il quieto vivere dello spogliatoio e, magari, differenze tecniche non così nette».
Resta l’idea di una solitudine meno esclusiva di una volta. E il concetto di concorrenza ribaltato: stimolo, non più disturbo. Vinca il migliore, sempre. Giochi il migliore, dipende.
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