rassegna stampa

Nils Liedholm: cambiò il nostro calcio portando la zona in Italia

In un Paese di conservatori e furbastri, Nils Liedholm, il Barone, svedese dall’ironia mediterranea, azzardò la scommessa e la vinse: portò la zona nel calcio italiano, era il 1979, e ne fece un modulo di successo quando con la sua Roma, nel...

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In un Paese di conservatori e furbastri, nella vita e nel gioco, ci vuole coraggio, e anche un po’ d’incoscienza, a proporre qualcosa di nuovo, di rivoluzionario. Nils Liedholm, il Barone, svedese dall’ironia mediterranea, azzardò la scommessa e la vinse: portò la zona nel calcio italiano, era il 1979, e ne fece un modulo di successo quando con la sua Roma, nel 1983, conquistò lo scudetto dopo 41 anni di attesa. Quel trionfo ebbe un significato simbolico: trascinò un mondo, quello del pallone, fuori dall’oscurantismo del catenaccio, del calcio all’italiana e del «primo non prenderle». Come tutte le rivoluzioni non attecchì subito ma se alla fine oggi tutte le squadre di casa nostra marcano a zona si deve riconoscere in Liedholm l’uomo che tracciò il sentiero.

CON PAZIENZA Centrocampista raffinato e milanista nel sangue (in rossonero dal 1949 al 1961 vinse, tra l’altro, 4 scudetti), Liedholm era un allenatore anche quando giocava. La leggenda racconta che il pubblico di S.Siro fece un «ohhh» di sorpresa quando lui sbagliò un passaggio: erano due anni che non accadeva.

Concepiva il calcio in modo più estetico che fisico, con la nazionale svedese aveva vinto l’oro all’Olimpiade del 1948 e raggiunto il secondo posto al Mondiale del 1958, perdendo in finale con il Brasile. «Già, - ripeteva il Barone ogni volta che ricordava quella partita - Loro avevano Garrincha, Didì, Vavà, Pelè e Zagallo... E io, quel giorno, non stavo tanto bene...». Era un nordico che si faceva incantare dalla tecnica sudamericana, aveva la pazienza di un padre di famiglia, non amava le alchimie tattiche, preferiva gestire tutto con il buonsenso. Schivava le polemiche con l’ironia e la saggezza: conosceva l’ambiente, e le trappole disseminate sul percorso, e puntualmente le evitava. La pacatezza era la sua forza.

A LEZIONE Nel 1979, alla guida del Milan, vinse lo scudetto della stella, poi decise che era giunto il momento di tentare l’avventura. Qualche mese prima gli aveva telefonato Dino Viola, che stava per diventare presidente della Roma. Lo voleva sulla panchina giallorossa. «Se non viene lei, io non compro la società», gli disse. E Liedholm accettò. In estate rilasciò un’intervista nella quale disse: «Ho davanti un triennio, dunque un bel ciclo. Intanto, cominciamo a giocare a zona, col doppio libero. Turone e Santarini faranno quello che riusciva a me vecchio e a Maldini giovane in coppia. Il Brasile nel ‘58, con due liberi, incantò e vinse i mondiali. Nel nostro piccolo ci proviamo. Nel calcio, inventare cose nuove significa riesumare mode tattiche antiche». Nessuno, in Italia, aveva mai battuto quella strada, attaccati com’erano gli allenatori ai vecchi sistemi, alla tradizione e agli stereotipi che ne derivavano. Il Barone pretendeva che tutti i suoi giocatori, anche i difensori, fossero abili tecnicamente e sempre in grado di impostare l’azione. Per capire la sua rivoluzione si tenga presente che, allora, ai difensori era demandato il solo compito di marcare gli attaccanti avversari e, al massimo, potevano spedire il pallone in tribuna. Rari erano i casi di giocatori della retroguardia in grado di cavarsela palla al piede. Anche per migliorare la loro confidenza con l’oggetto il Barone sottoponeva i suoi ragazzi a lunghe sedute di tecnica individuale.

LA NOVITA’Il Barone impiegò esattamente tre anni, come da programma, a creare una macchina perfetta, e nel 1983 festeggiò lo scudetto. Se si deve individuare l’uomo che più degli altri incarnava il suo concetto di calcio si fa alla svelta: Paulo Roberto Falcao. Regista a tutto campo, arrivò a Roma nell’estate del 1980 e fin da subito incantò. Dirigeva le operazioni con sapienza, decideva i ritmi di gioco, organizzava il possesso-palla, tattica innovativa per l’epoca. Il Barone ripeteva: «Se il pallone ce l’abbiamo noi, non ce l’hanno gli avversari: quindi non rischiamo di prendere gol». In questa elementare definizione c’era tutto l’uomo: semplificava anche le cose più difficili, e così le faceva imparare ai suoi allievi. Ognuno aveva una zona di competenza, ci si preoccupava del pallone e non più dell’avversario: questa era la grande novità. E, partita dopo partita, grazie agli insegnamenti del Barone e al talento dei Bruno Conti, dei Falcao, degli Ancelotti, dei Di Bartolomei e compagnia bella, la Roma diventò un piccolo Brasile. Proprio quello che aveva in mente Liedholm quando aveva accettato la proposta del presidente Viola.