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La Gazzetta dello Sport

Genio, intuizione e amore: i 50 anni giallorossi di Bruno Conti

Genio, intuizione e amore: i 50 anni giallorossi di Bruno Conti - immagine 1
Da calciatore, da dirigente, a trottare per i campi di periferia con le sue cicche masticate fino all’esaurimento, geniale scovatore di talenti
Redazione

Bazzecole del tempo, buffet freddo da calendario, ma a questo ci aggrappiamo, sapendo che sono chiodi posticci, ostie di marzapane da deglutire con un attimo di commozione, soprattutto se, nel caso in questione, hai cuore e perizoma giallorossi, scrive Giancarlo Dotto su La Gazzetta dello Sport. Giorni fa gli inverosimili e quasi oltraggiosi settant’anni del Divino, festeggiati o quasi sicuramente no (conoscendo il tipo) nella remota Porto Alegre, domani all’Olimpico i cinquant’anni da romanista certamente festeggiati, eccome, di Brunetto di Nettuno, detto anche da mezzo mondo MaraZico dopo le sue scellerate imprese dell’82 mondiale. Protagonista della Roma  degli Anni 80, quella che ci provava ogni volta a imbronciare le facce di Boniperti e di Platinì e qualche volta ci riusciva. La Roma della zona celeste che indusse il riveriano incallito Carmelo Bene a confessarsi devoto giallorosso per tutto il tempo che durò quella grazia, tre anni almeno.

Di quella grazia e di quella luce, Brunetto era parte vitale. Voglio dire. Funambolico schizzo, alias scugnizzo, di colore in una partitura dettata dai compassi cartesiani dei Falcao e Di Bartolomei e dalle sintesi brutali di Pruzzo. Subito leggibile il suo talento. Da che debutta, mezzo secolo fa appunto, 9 settembre 1973 nella Primavera della Roma al Tre Fontane contro la Ternana, maglia numero 8, diciottenne elfo dei boschi e delle grotte, in quel caso del mare, strappato al baseball, perché se nascevi a Nettuno, altro destino non avevi. Talento già bello che fatto per smazzare fuoricampo in California, a Santa Monica, dove c’era già chi lo aveva adocchiato, questo furibondo spiritello, dentro un corpo che non era un corpo, ma un flipper vivente. Una somma di tic che si accendevano dalla testa ai piedi, a cominciare dalla finta che, come nel caso di Garrincha, lo condannava. Era sempre la stessa. Ma saperlo non bastava mai a scampare l’umiliazione.

Sta di fatto che il monellaccio dal ciuffo che si rivelerà eterno debuta il 10 febbraio 1974, contro il Torino e da lì la lunga storia d’amore. Da calciatore, da dirigente, a trottare per i campi di periferia con le sue cicche masticate fino all’esaurimento, geniale scovatore di talenti (De Rossi, Aquilani, Romagnoli, Pellegrini, Florenzi, Politano tra i tanti) o da infermiere travestito da allenatore, ogni volta che il capezzale chiama perché al cuor non si comanda. Sempre uguale a se stesso, Brunetto, anche da campione del mondo, osannato da Pelè, anche quando inghiottito dalle sue stesse rughe e dai suoi tic moltiplicati di un’età che sfiora i settanta. Mezzo secolo in giallorosso. Lo fa, lo scandaloso e anacronistico monellaccio, in faccia a un’epoca che proprio di questi giorni, con la scusa ora delle scommesse malandrine, ma gli esempi si sprecano, fa i conti e presenta il conto alla generazione del vuoto.

 

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