rassegna stampa

Fenomenologia del Tottismo

I 23 anni di calcio del capitano della Roma, tra fede acritica e culto della bellezza. Dal pupone al campione, fino al tramonto ricco di infinite polemiche

Redazione

Se negli anni Cinquanta e Sessanta il cinema rappresentava il sogno dell’italiano medio – come «Bellissima» di Luchino Visconti ci ha raccontato – adesso che calcio e tv hanno soppiantato nell’immaginario collettivo la via più facile per la notorietà, Totti è diventato l’icona di un paio di generazioni, il punto di caduta di un tandem di mondi scintillanti. E che tutto questo possa essere ingombrante per chi debba conviverci, in fondo non può sorprendere.

Tottismo, come scrive Massimo Cecchini su "La Gazzetta dello Sport", può intendersi in due modi: come malattia («mi dispiace, suo figlio si è ammalato di Tottismo») o come filosofia («il Tomismo non mi appassiona più, ora studio il Tottismo»). Come dimostra la bacheca – importante ma non ricchissima (un Mondiale, un Europeo Under 21, uno scudetto, 2 Coppe Italia e 2 Supercoppe Italiane) – in entrambi i casi si trascende dal calcio giocato per approdare in categorie intellettuali diverse, che hanno come discrimine la fede e il culto della bellezza. Il problema è che, se l’intersezione tra le due scuole di pensiero era facile da trovare quando il capitano della Roma era nel fulgore della sua carriera, adesso le strade cominciano a divergere.

Totti è stato «la mela del ramo alto che invano tentarono di raggiungere», come cantava la poetessa Saffo circa 2600 anni fa. Ovvero, l’albero giallorosso mai ha prodotto (e forse mai più produrrà) una creazione del genere. Quanto è bastato, in quasi un quarto di secolo (23 anni), per consentire ai romanisti di lenire con la bellezza la nostalgia dei trofei. Come dire: «Voi del Nord potete vincere gli scudetti, ma il re del mondo (in certi momenti è stato ad un passo dall’esserlo) lo abbiamo noi».

Il suo matrimonio con Ilary (in diretta tv) santifica il punto di partenza del Tottismo nella sua forma più epidermica – cioè quella che precede la malattia o la filosofia – ovvero nel connubio tra calcio e piccolo schermo. Totti ormai è diventato spigliato davanti alla macchina da presa, ma per renderlo familiare c’è anche un altro dato: il suo non è una matrimonio vip all’insegna della sola carriera, perché Francesco e Ilary mettono al mondo figli (per ora tre) proprio come l’impiegato del piano di sotto.

Resta solo un ostacolo al totale sdoganamento: il tifo calcistico. A collocarlo nel cuore di tutti ci pensa il destino. Il grave infortunio del 2006, quello che corre il rischio di fargli perdere il Mondiale, lo rende come Ulisse, «bello di fama e di sventura». L’Italia si stringe a coorte, la clinica dove soffre diventa meta di pellegrinaggio persino del premier Berlusconi e – doviziosamente illustrato da un documentario – il miracolo avviene. Totti recupera, vince addirittura il Mondiale 2006 con una placca d’acciaio nella gamba e l’anno successivo, a quasi 31 anni, alza addirittura la Scarpa d’oro come miglior cannoniere europeo. Potrebbero essere i titoli di coda, invece è solo l’inizio di uno sfolgorante, ingombrante tramonto che solo in questi giorni scopre l’eclisse delle polemiche. Proprio Spalletti, l’allenatore del suo splendido trentennio, adesso è quello che beffardamente lo sta indirizzando verso l’uscita, sottraendogli di fatto il traguardo di calcare il campo fino a 40 anni e prendendosi persino il lusso di evidenziarne i vizi privati (il gioco) per appannare le pubbliche virtù (i gol).

Totti e le sue magie staranno anche per diventare materiale d’archivio, ma il Tottismo – come malattia, filosofia o semplice fenomeno di costume – non terminerà mai, non fosse altro che nel rappresentare la pietra di paragone per l’«ismo» che verrà.