E alla fine siamo tornati all’inizio. Nel caso dell’intervento di trasformazione urbanistica di Tor di Valle l’inondazione dell’area è il mantra con cui si ricomincia e i giorni trascorsi sono ormai diventati mesi, passati trovando ogni giorno un nuovo argomento per fermarlo. Allo stesso tempo però (16 settembre) si firmava una memoria di Giunta in cui si diceva agli uffici di svolgere le attività per l’approvazione del progetto e si inviava tutta la documentazione in Regione con tanto di cronoprogramma. Nessuna di quelle scadenze è stata rispettata. Mentre le fanfare della speculazione suonavano sempre più alte e le fanfaronate sui rischi e le criticità del progetto alimentavano il dibattito. L’unica cosa che non si è fatta è lasciar lavorare gli Uffici nelle condizioni migliori sul merito del progetto definitivo consegnato dal proponente. La delibera del 2014 è una delibera che dichiarando il pubblico interesse, fissa le condizioni che dovevano essere verificate proprio in questa fase, come scrive Caudo su La Gazzetta dello Sport. Verificare tutto quello che c’era da valutare e nel caso fermarsi, cambiare e modificare tutto quello che era necessario. Anche se fossimo rimasti noi a decidere, la Giunta Marino, questo sarebbe stato il lavoro per arrivare all’approvazione dello Stadio.
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Dopo sette mesi di bugie si inizi a lavorare sul merito, altrimenti avrà perso Roma
La delibera di Marino del 2014 è una delibera che dichiarando il pubblico interesse, fissa le condizioni che dovevano essere verificate nelle ultime settimane
L’assemblea capitolina, se si fosse lavorato nel merito, avrebbe avuto un ruolo centrale, non uno strapuntino su tavoli negoziali che nulla potevano negoziare. Ai consiglieri dell’aula Giulio Cesare e non ad altri compete presidiare le condizioni che in quella stessa aula sono state dettate. In questi mesi si sono dette assurdità come quella di realizzare lo Stadio senza le opere pubbliche, senza il ponte che lo collega all’autostrada Roma-Fiumicino. Poi si è scoperto che non c’era nessun «regalo», che il pubblico interesse era stato dato sulle opere e non sullo Stadio.
In queste ore sono lontano da Roma impegnato in un convegno di urbanisti di diverse parti del mondo che tratta proprio degli obblighi che lo sviluppatore immobiliare privato si deve assumere nella trasformazione urbanistica per costruire la città pubblica. Dal confronto con quello che accade altrove capisco che la vera battaglia persa a Roma non è per lo stadio ma per una città che sa scegliere con serietà senza luoghi comuni, che sa distinguere tra un investimento pubblico e uno privato, come lo Stadio, dove è proprio il privato a rischiare i propri soldi se non si rispettano i tempi e le modalità previste. Si è detto che lo stadio non è della Roma ma di una società di Pallotta, che però è proprietario della Roma e non si è detto che la Roma non può essere venduta senza il vincolo di giocare nello stadio e che questo non può essere a sua volta venduto senza il vincolo che lega la Roma allo stadio. Non si è detto che una parte degli introiti prodotti dalle attività commerciali connesse con lo Stadio andrà a finanziare la As Roma e non si è detto che se tutto questo non dovesse succedere c’è una penale che vale quanto la dichiarazione di pubblico interesse, 195 milioni. A chi giovano tutte queste omissioni? E se invece ci si mettesse finalmente a lavorare nel merito delle cose, non sarebbe questa sì la mossa del cavallo, per affermare che Roma è una città che non ci sta ai ricatti e che mantiene la barra dritta sul rigore, la serietà e la responsabilità?
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