Daniele De Santis non parla, ma scrive. Due paginette, a penna, tutte in stampatello, spedite per fax. Con un’ammissione, la prima, evitata per cinque mesi, ora non più rinviabile: «Ho sparato, ma non sono un mostro». Dal suo letto d’ospedale, l’indagato per l’omicidio volontario di Ciro Esposito scrive ai pubblici ministeri Eugenio Albamonte e Antonino Di Maio, i titolari dell’inchiesta sugli spari di Tor di Quinto che il 3 maggio, prima della finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina, colpirono il 29enne di Scampia, deceduto dopo 53 giorni per le ferite riportate al torace.
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De Santis confessa «Sì, ho sparato a Ciro ma volevo difendermi»
Daniele De Santis, tramite una lettera, confessa di aver sparato quel 3 Maggio, ma solo per legittima difesa
Legittima difesa? È la prima versione di quel pomeriggio che l’omicida fornisce agli inquirenti. De Santis non proferiva parola dall’interrogatorio di garanzia del 7 maggio, quando si era limitato a mettere insieme «non ricordo» e frasi apparentemente sconnesse: «Ho preso tante di quelle botte», «Non sono io che sono andato a Napoli...». Stavolta prova a dare una logica alla sua ricostruzione, anche se di parte e seppure ancora incompleta: «Ho sparato perché sono stato coinvolto in una rissa e ho avuto paura» scrive in un passaggio della lettera inviata dall’ospedale Belcolle di Viterbo alla Procura di Roma. «Ero inseguito, mi hanno aggredito, ho temuto per la mia vita» aggiunge subito dopo. È in questo passaggio, concordato con i suoi legali, Tommaso Politi e Michele D’Urso, che si intuisce quale sarà la strategia difensiva nella fase del dibattimento: provare che ha sparato per legittima difesa, perché, come del resto ipotizzano i periti del Racis, prima di estrarre la Benelli 7.65, De Santis «ferito e sanguinante», veniva «sopraffatto dai suoi aggressori», cioè Ciro e i suoi compagni. «Una cosa ridicola – ha commentato Antonella Leardi, la mamma del tifoso ucciso –. Ha avuto paura di un ragazzo dal volto pulito? La verità è che ha sparato senza essere aggredito e io mi farò ammazzare perché emerga questa verità».
E le coltellate... Una versione che, seppure rafforzata in certi passaggi dalle conclusioni dei carabinieri (che fanno scrivere a De Santis anche «la verità sta emergendo»), non convince affatto i pm, che non vedono come Gastone possa davvero provare la legittima difesa e non sono per nulla sconvolti dal contenuto della lettera dell’ex ultrà romanista. «Un racconto sommario e non particolarmente dettagliato» hanno commentato, aggiungendo: «La versione dei fatti che ci ha fornito non cambia il quadro indiziario a suo carico e non gli evita di essere interrogato». Almeno, non lo sottrarrà alla visita dei pm, prevista domani. Probabilmente, De Santis non risponderà alle domande dei magistrati, almeno così ha fatto intendere nella lettera: «Le mie condizioni fisiche e morali non mi consentono di sostenere un interrogatorio». Anche qui, al netto di una reale condizione di sofferenza (nei giorni scorsi ha subito una ischemia e a breve verrà di nuovo operato alla gamba), la sua strategia è intuibile: prendere tempo almeno fino alla conclusione dell’incidente probatorio, che lunedì vivrà un altro momento clou nell’udienza sulla ricostruzione ipotizzata dai periti del Racis. E lì i pm intendono «aggredire» un altro tema chiave dell’indagine: le coltellate, vere o presunte, subite da De Santis prima o dopo gli spari. Il consulente incaricato dalla Procura di studiare le cartelle cliniche dell’indagato, infatti, ha scoperto che «ferite da punta» furono effettivamente rilevate anche nella seconda visita al Gemelli, ma non furono ritenute così gravi da richiedere un intervento infermieristico. Tradotto: chi lo visitò al Pronto soccorso, in base all’entità delle ferite, non pensò che fosse stato ferito addirittura con un coltello.
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