rassegna stampa

Bloccare l’odio è un dovere di civiltà

Nel calcio, come nella società, c’è una malattia. Bisogna combatterla

Redazione

Le parole sono pietre. Non serve mettere queste parole tra virgolette, non serve citare Carlo Levi. Chiunque lo sa, chiunque lo ha misurato mille volte nella sua vita, scrive Walter Veltroni su La Gazzetta dello Spirt. Le parole di un insegnante, di un genitore, di un amore, di un amico, di un avversario possono segnare per tutta la vita.

Le parole ora sembrano macigni che volano. Vengono scagliate senza cura, con assoluta indifferenza alle conseguenze che possono avere sugli altri. Ieri Andrea Di Caro su queste colonne è partito da uno striscione affisso davanti a Trigoria con il quale si insultavano, in una volta, due campioni del calcio italiano come Rocca e Zaniolo. Ironizzando, con una disumana volgarità, sugli infortuni che hanno subito. La sfortuna degli altri trasformata in dileggio, in insulto.

E ancora ieri dei tifosi sono andati davanti casa di Zaniolo per affiggere un altro striscione nel quale si insultava lui e la sua famiglia. Non c’è nulla da ridere. È la sindrome dell’odio, che sembra essersi impadronita di ogni anfratto della nostra vita sociale. Non succede solo negli stadi o attorno al calcio, lo sappiamo. Ma anche questa considerazione, sociologicamente giusta, non basta più.

Nel calcio c’è una malattia. Bisogna combatterla. Come l’epidemia dell’influenza cinese ha bisogno di essere riconosciuta perché venga affrontata nel modo giusto così non basta più dirsi che, in fondo, “ è tutto così”. I social hanno sdoganato e messo in circolo l’odio. Quello che prima stazionava nei bar è diventato globale. Ma, in un crescendo inquietante, le parole si sono trasformate da ghiaia in pietre e poi, ora, in macigni. E sembra che tutto sia legittimo, tutto sia impunibile.

Affiggere quegli striscioni prima di un derby che accende le passioni è un atto pericoloso, una istigazione ad affondare in quelle spirali di ritorsioni che ha già fatto pagare prezzi molto alti. Il derby di Roma dovrebbe sempre ricordare il sacrificio di Vincenzo Paparelli e ricordare l’orrore delle scritte che il figlio cancellava personalmente per non farle vedere alla madre.

Ciò che più serve è che si faccia sentire, alta e chiara, la voce della stragrande maggioranza degli appassionati di calcio.

E appassionati di libertà. Quella di tifare per chi si vuole, come si vuole. Senza insultare chi ha subito un infortunio, senza gioire per la morte di altri, senza fischiare chi ha un colore della pelle diverso dal proprio, senza alimentare l’odio nei confronti degli altri.

Anche nel calcio si può e si deve misurare la civiltà di un paese.