Aurelio Andreazzoli sta vivendo una seconda giovinezza calcistica sulla panchina dell'Empoli. Nonostante la carta d'identità, la sua è una delle squadre che gioca in maniera più moderna e propositiva. Il tecnico toscano si è raccontato in una lunga intervista a 'Sport Week', settimanale de 'La Gazzetta dello Sport', in cui è tornato anche sull'argomento Roma. Ecco le sue parole:
La Gazzetta dello Sport
Andreazzoli: “La Coppa Italia con la Lazio l’hanno persa Totti e De Rossi”
L'attuale allenatore dell'Empoli torna sul derby in finale del 2013: "Dire che l'avevo persa io, significherebbe che l'allenatore è più importante dei giocatori e non è cosi"
Che mondo le ha fatto conoscere, Spalletti? Quello della Serie A e di un calcio sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo. Luciano è di una curiosità esagerata. Mi chiamò perché io ero più curioso di lui e mi portò a Roma, dove sono rimasto per dodici anni come collaboratore tecnico dei vari allenatori che si sono dati il cambio in panchina.
Ricordiamoli. Dopo Spalletti, Montella. Curioso, studioso, ambizioso, voglioso di sperimentare, di- sposto a mettersi in discussione anche accettando incarichi all'estero, cosa che io non farei perché, senza conoscere la lingua, non riuscirei a entrare nella testa dei giocatori. So un po' di francese, non parlo inglese. Perciò stravedevo per Trapattoni, perché alla sua età accettava sfide in tutta Europa. Io sono un fagiano, un animale stanziale.
Luis Enrique. Personaggio stratosferico. Uomo tutto di un pezzo, senza compromessi. Con lui non c'è possibilità di negoziazione, e non perché sia chiuso a prescindere, ma perché è serio: se decidiamo tutti insieme che si fa cosi, poi si fa così, senza scorciatoie o deviazioni. Quando è andato via, ha lasciato sul tavolo un milione e due di contratto. Era pure uno sportivo incredibile: ciclista, maratoneta, ironman
perfino.
Zeman. Con Sacchi, ha inciso nel calcio italiano in maniera profonda e decisiva.
Esonerato lui, ne prende il posto il 2 febbraio 2013. Con la Roma avevo un contratto quinquennale da collaboratore. Tutto avrei immaginato, tranne che la società mi chiamasse ad allenare la prima squadra. Ma è il mio lavoro ed è quello che voglio fare, perciò dico subito si. E ho le idee chiarissime sul gruppo di lavoro da formare. Chiamo tutti quelli che a Trigoria fino a quel momento erano rimasti in terza o quarta fila: Franco Chinnici, che faceva recupero infortuni e lo promuovo a preparatore atletico; Luca Franceschi, ora con me a Empoli; Roberto Muzzi, che allenava i Giovanissimi e io metto a fare il mio "secondo".. In quattro mesi di campionato facciamo quasi due punti di media, arriviamo davanti alla Lazio partendo da 9 punti di distacco, chiudiamo con la miglior difesa dietro a quella della Juve.
A quel punto si aspetta la riconferma? No. Sarebbe scattata automatica se non avessi perso la finale di Coppa Italia proprio contro la Lazio, per giunta all'Olimpico. Un mese dopo arriva Garcia e, al via della nuova stagione, la squadra viene presentata allo stadio, entrando in campo sotto la Sud. In ordine alfabetico. Indovina chi è il primo?
Lei. Doppia "A" iniziale nel nome e nel cognome: non si scappa.
Le vomitano addosso di tutto... Un po' di casino lo hanno fatto. Di certo non mi hanno applaudito. Ero quello che aveva perso la Coppa Italia nel derby. Ma dire che l'avevo persa io, significherebbe che l'allenatore è più importante dei giocatori, e non è cosi. In quella squadra c'erano Totti, De Rossi, Balzaretti: la finale la persero loro. Insomma, con Garcia ritorno al mio vecchio ruolo di allenatore in caso di bisogno. A un certo punto mi stancai di non allenare e dissi: basta, torno a casa e smetto.
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