Non tutto quello che si può contare, conta: lo diceva Albert Einstein, come rammentano Chris Anderson e David Sally nel libro intitolato «Tutti i numeri del calcio» (Mondadori editore). Ho ripescato la citazione dopo aver letto, in materia, il pensiero di Walter Sabatini: «Pallotta cerca l’algoritmo vincente, ma io vivo di istinto e il mio calcio non può essere riportato alla statistica».
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Algoritmi o fiuto? Io sto con Sabatini
I numeri aiutano, i numeri spiegano. Ma sono bambini che attraversano la strada: vanno accompagnati
Ci risiamo. Il fascino delle analisi minuziose. L’aggressione dei dati. Tradizionalisti contro progressisti. Si vota a ogni partita, ci si becca a ogni schermata. I numeri aiutano, i numeri spiegano. Ma sono bambini che attraversano la strada: vanno accompagnati. In caso contrario, apriti cielo. Andava di moda incensare - o comunque segnalare - coloro che percorrono più chilometri. Gli stakanovisti dell’avanti e indietro. I maratoneti da area ad area. Poi, maledizione, muore Johan Cruijff e Pep Guardiola, nel perpetuarne il messaggio rivoluzionario, butta lì: «Ancora storditi da una sconfitta, ce la spiegò così: avete perso perché avete corso troppo, non perché avete corso poco». Punto e a capo.
Alfredo Di Stefano ha realizzato meno gol europei di Filippo Inzaghi ma non per questo, spero, qualcuno oserà paragonarli. Voce dal fondo: sono altre le cifre che spalancano la libidine dei grafici. I database scortano e illuminano, ci mancherebbe, a patto che rimangano il mezzo e non il fine. Un po’ come il possesso palla, merce che noi italiani abbiamo idolatrato fino a quando, in assenza di risultati, siamo passati a dileggiarlo nel modo in cui, più o meno, il ragionier Ugo Fantozzi demolì «La corazzata Potemkin» al cineforum aziendale.
Il calcio è metà scienza e metà riffa. Per smuoverne l’armadio tattico di un centimetro servono decenni di studi, di esperimenti, di sbucciature. E attenzione, sempre, alle imboscate che il regolamento tende, dal mani-comio al fuorigiochicidio. I fissati delle tabelle e delle radici quadrate sono portati, per indole, a sottovalutare l’incidenza delle girandole normative, sommergibili dai siluri spesso fatali.
È cambiato il mondo, e allora è inevitabile che, in ambito agonistico, siano cambiati l’approccio, i criteri di indagine. Ben vengano gli addetti allo scouting che, quando ero ragazzo, si chiamavano osservatori e invece di compilare file digitali riempivano taccuini. L’argomento resta affascinante, perché agita e mescola le anime che l’attività ludica ha liberato nel trasloco da un secolo all’altro. Il calcio ha nei piedi lo strumento fondamentale. Non è il baseball, e nemmeno il basket, il football (americano) o l’hockey su ghiaccio, che hanno nelle mani e nelle braccia il senso stesso della propria differenza.
La calcolatrice è come la moviola: né buona né cattiva, ma buona o cattiva secondo l’uso o l’abuso. Diego Maradona nacque sull’erba brulla di un campetto di periferia. Leo Messi sembrava addirittura inadeguato, piccolo com’era. Non escludo che l’Alessandro Del Piero del Tremila possa affiorare da un cassetto di ascisse e ordinate dedicato alla memoria di Vittorio Scantamburlo, sempre sia lodato, colui che per primo ne esplorò il talento. E lo urlò.
Ai tempi in cui lavorava a Salerno, Gipo Viani ebbe l’intuizione del battitore libero sbirciando la rete di riserva che alcuni pescatori impiegavano per recuperare i pesci sfuggiti al primo rastrellamento. Ecco: quella rete lì, a rimorchio, gli suggerì di arretrare un difensore o chi per lui dietro la canonica linea. Non c’erano i computer, né quei bisturi tecnologici che hanno poi inciso la pancia dello sport fino a trasformare l’operazione nella ricerca di singoli attimi, nell’autopsia di singoli gesti.
Sto con Sabatini: viva il fiuto.
Roberto Beccantini
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