(Gazzetta dello Sport - M.Iaria) Cosa succederebbe se il valore dei diritti televisivi si fermasse e cominciasse la sua parabola discendente? È un interrogativo inquietante che comincia a circolare nelle riunioni dei club, negli incontri istituzionali. Il calcio italiano è il più teledipendente che ci sia. Il miliardo annuo che piove dalle emittenti non solo rappresenta il 60% del fatturato della Serie A ma garantisce anche la sopravvivenza delle categorie inferiori, visto che 100 milioni sono destinati alla mutualità. È vero che i contratti già firmati sono validi fino al 2015, ma sarebbe sbagliato non riflettere sulle prospettive del sistema delle pay tv in Italia e non prevedere un piano B in caso di una sua involuzione. Ora che il mecenatismo all'italiana è in crisi e il fair play Uefa è alle porte, i tagli non bastano. Vale lo stesso discorso che si fa per il Paese. Nell'agenda dei prossimi mesi va messo l'accento sul capitolo della crescita. E quando si parla di crescita non si può non parlare di stadi. È lì che siamo indietro. Nel 2010-11 la Serie A ha incassato al botteghino 197 milioni, appena il 13 per cento dei ricavi totali. Solo la Ligue francese ha fatto peggio (131 milioni). Le altre leghe top sono lontanissime: Premier League (Inghilterra) 610 milioni (24 per cento del fatturato), Liga (Spagna) 428 (25 per cento), Bundesliga (Germania) 411 (23 per cento).
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Tutti gli stadi da migliorare o si dipenderà solo dai diritti tv
(Gazzetta dello Sport – M.Iaria) Cosa succederebbe se il valore dei diritti televisivi si fermasse e cominciasse la sua parabola discendente?
DIFFERENZE È tutto collegato. Nuovi stadi portano più gente, più gente porta più ricavi, più ricavi portano più qualità tecnica. A casa nostra la Juve ne è l'esempio: nella prima stagione allo Juventus Stadium, inaugurato nell'agosto 2011, la media spettatori è passata dai 22 mila dell'Olimpico a quasi 38 mila, con 21 sold out su 23 partite; i ricavi sono quasi triplicati, da 11,6 a 31,8 milioni. Un circolo virtuoso che sta proseguendo quest'anno, col +30 per cento di proventi netti dagli abbonamenti e i 4,8 milioni incassati nel primo trimestre (1,7 nel 2011-12) da museo, tour e attività extrasportive organizzate nell'impianto durante la settimana. Il tutto, sul piano tecnico, accompagnato dalla riconquista dello scudetto. All'estero, i numeri dell'Arsenal sono impressionanti. Nel 2006-07, traslocando da Highbury all'Emirates, raddoppiò l'affluenza (da 38 a 60 mila, con 41 mila tifosi in lista d'attesa per un abbonamento) e il giro d'affari (da 64 a 135 milioni) entrando per la prima volta nella top five della classifica delle società più ricche d'Europa realizzata da Deloitte.
PICCOLI ESEMPI Beninteso, lo stadio è un affare per tutti, non solo per le grandi squadre. A patto che il progetto sia commisurato alle esigenze della comunità e del territorio. Se l'investimento in infrastrutture, in un sistema così volatile come quello calcistico, non fosse conveniente, i club inglesi non avrebbero investito 3,1 miliardi di sterline tra il 1992 e il 2011. E non solo l'Arsenal o il Manchester City, che lasciando Maine Road ha visto subito raddoppiare i ricavi. Il Brighton & Hove Albion militava in League One (la terza serie) quando ha iniziato a costruire il suo stadio, costato 98 milioni di sterline. Ne è valsa la pena: +172 per cento di spettatori e 89 per cento di riempimento. Anche in Germania i piccoli casi di successo si sprecano. L'Augsburg, ad esempio, passando nel 2009 nella nuova Sgl Arena, ha incrementato i ricavi al botteghino del 138 per cento. Si stanno ripagando benissimo i 70 milioni spesi per la nuova casa dell'Hoffenheim: il fatturato si è decuplicato e i 30 mila posti (il vecchio impianto ne conteneva 6 mila) sono occupati per il 97 per cento.
IN ATTESA DELLA LEGGE Le squadre italiane prendano appunti. E ora che la legge sugli stadi è stata definitivamente affossata in Parlamento (se ne riparlerà, chissà, nella prossima legislatura), è bene che si rimbocchino le maniche e s'inventino qualcosa. Prima che sia davvero troppo tardi.
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