rassegna stampa

«Spazio ai giovani per tornare al vertice»

"La Figc non può pensare solo al numero delle società, deve pensare al progetto tecnico. Dobbiamo necessariamente cambiare, rinnovarci, adeguarci ai tempi."

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"Damiano Tommasi, lei è presidente dell’Associazione italiana calciatori (Aic) dal 2011: cosa è cambiato nella figura giuridica del calciatore professionista?

"«Di fatto nulla. Da parte dell’Aic sono cambiati i rapporti con i calciatori perché, con la scissione del 2010 della Lega, abbiamo addirittura tre accordi collettivi diversi per A, B e Lega Pro e siamo gli unici in Europa. D’altra parte chi gioca la Champions League non ha le stesse necessità di un giocatore che milita in serie B o in altre leghe. Inoltre dal 2011 sono rimaste in piedi le iniziative per modificare la legge 91, ma ancora non si è fatto nulla sia per le vicissitudini politiche, sia per le difficoltà di adeguare la figura giuridica dei giocatori in ambito professionistico».

Qual è la vostra posizione in riferimento alla proposta di stabilire un numero «chiuso» di stranieri per i club?

"«Noi parliamo di selezionabili e non di stranieri, d’altra parte l’Aic non rappresenta solo i calciatori italiani ma tutti quelli che giocano nel nostro paese, di cui oggi più del 50% sono stranieri. Detto questo però dobbiamo notare che sono aumentati, e di molto, gli italiani all’estero. Abbiamo visto dei nostri ragazzi impegnati in Champions, in Italia non avrebbero certo avuto queste possibilità. Cito uno per tutti, Donati, che ha fatto vincere il Bayer Leverkusen segnando un gol. Oggi in Europa è difficile, se non impossibile, limitare la circolazione dei comunitari, ma per valorizzare i nostri giovani, la Federcalcio dovrebbe fare opera di convincimento con le società affinché investano sui ragazzi con qualità. La Germania, a differenza nostra, non ha limiti per extracomunitari e comunitari, ma riesce lo stesso a valorizzare i giovani imponendo un determinato numero di giovani formati in patria. Dobbiamo trovare un modo giusto per garantire in campo più italiani».

Nella carriera di giocatore è stato definito un angelo, un esempio per i giovani. Oggi come si fa a dare un esempio? E c’è qualcuno dei giocatori che militano in serie A che può essere d’esempio per tutti?

"«Mi dà fastidio essere considerato una “mosca bianca”. Ho conosciuto parecchi ragazzi in gamba, di grande spessore, con esperienza e super professionisti. Quando sono arrivato in Nazionale e ho visto giocatori di grande statura tecnica e importanza sportiva essere i primi ad arrivare in campo e gli ultimi ad andare via, essere i primi a fare prevenzione per gli infortuni e gli ultimi a finire gli esercizi tecnici, per me è stata una grande palestra. Anche oggi gli esempi ci sono, basta pensare ai ragazzi dell’under 21 che è arrivata in finale l’anno scorso agli Europei. Cito uno per tutti, Alessio Cerci che ha faticato molto ad emergere prima di arrivare a una dimensione professionale di alto livello. Io vivo a Verona e penso che Toni sia un esempio per tutti. Alla sua età e con il suo background è ancora motivato e competitivo ad alti livelli. Il mio cruccio è un altro: vedere come le nostre società preferiscano giovani stranieri e non italiani pensando che siano migliori dei nostri. In Italia è impensabile che le grandi società puntino suoi giovani e li facciano diventare immediatamente titolari, tranne che non si tratti di grandi e straordinari campioni, al contrario di quello che succede all’estero dove iniziano a competere a livello professionistico con sistemi differenti come le seconde squadre. Qui l’unica possibilità è cercare di emergere con la Primavera».

Di chi è la responsabilità? Dei regolamenti, delle società, dei tecnici?

"«Probabilmente del sistema calcistico. Il nostro è uno dei pochi paesi che non prevede una categoria intermedia tra la Primavera e la prima squadra, perché affidiamo alla Lega Pro la formazione dei giovani e quindi si impongono i ragazzi per la loro età e non per i meriti sportivi. Sono migliori i sistemi spagnoli, tedeschi o inglesi che hanno un mix di giovani che si misurano col mondo degli adulti nei campionati. Tutto ciò è completamente assente in serie A. Un esempio su tutti: il Chievo ha vinto il campionato Primavera ma nessun giovane è stato inserito in prima squadra. Bisognerebbe inserire un giovane e farlo crescere senza che sia messo sulla graticola se sbaglia».

Il presidente dell’Uefa Platini è contrario alla moviola in campo, desiderata secondo lui solo dalle squadre che perdono. Lei che ne pensa?

"«Credo che l’uso della tecnologia nel calcio sia molto complicato perché non è uno sport in cui la situazione di un’azione finisce come il basket, il tennis, la pallavolo. Nel calcio bisogna fermare un’azione con una scelta, se quella scelta poi si rivela sbagliata si innesca la polemica del perché si è fermata l’azione. Quindi credo che bisogna fare un passaggio culturale e capire che se dei giocatori sbagliano, anche l’arbitro può sbagliare. Fa parte della competizione. Anche la Federcalcio non è per la moviola, infatti ha inviato una lettera per l’utilizzo della tecnologia e non della moviola».

Ad agosto è stato eletto presidente federale Tavecchio. Il vostro candidato era Albertini. I programmi erano molto simili: qual è la differenza tra i due? E quale la vostra posizione nel Consiglio federale?

"«La giovane età e il percorso fatto da Albertini come calciatore ti fa pensare a un vice campione del mondo che dopo il ritiro si mette in discussione e per anni studia per dirigere il nostro sport. Quindi aldilà del programma, l’elezione di Albertini sarebbe stata un messaggio a quelli che lasciano il calcio perché sono convinti che non si possa cambiare».

Quindi con Tavecchio non può cambiare nulla?

"«Non lo so. Il motto di Tavecchio era il cambiamento nella continuità, quindi lasciare in mano il calcio a coloro che gestiscono i club. Così l’aspetto tecnico sportivo rischia di essere messo nell’angolo. La Figc non può pensare solo al numero delle società, deve pensare al progetto tecnico. Dobbiamo necessariamente cambiare, rinnovarci, adeguarci ai tempi. Per questa ragione noi abbiamo puntato su Albertini, per fare programmi non per due anni ma almeno per dieci. È necessario per il calcio femminile, le giovanili e tutte le componenti federali».