«Se non avessi premuto quel grilletto sarei morto». Daniele De Santis, il romanista che ha sparato al tifoso napoletano Ciro Esposito - morto in ospedale quasi due mesi dopo gli incidenti dello Stadio Olimpico del 3 maggio scorso, dove si giocava la finale di coppa Italia tra Napoli e Fiorentina - parla per la prima volta. E lo fa attraverso una lunga intervista a Panorama , oggi in edicola. Una versione, quella di De Santis, 48 anni, tifoso giallorosso, ex karateka e militante dell’estrema destra, attualmente detenuto a Viterbo nell’ospedale di Belcolle, che chiarisce alcuni punti mentre su altri resta il mistero, a partire dalla pistola che aveva in pugno.
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Morte di Ciro Esposito, De Santis: «Mi stavano ammazzando ho sparato per salvarmi»
Parla il romanista che ha sparato al tifoso napoletano morto in ospedale quasi due mesi dopo gli incidenti dello Stadio Olimpico del 3 maggio scorso, dove si giocava la finale di coppa Italia tra Napoli e Fiorentina
«Penso sempre a quel maledetto giorno - racconta - è stata e rimane una tragedia per tutti. Per la famiglia di Ciro e anche per la mia. A volte mi domando: se per salvarmi la vita, oltre alle sofferenze fisiche, devo veder soffrire tanto, non era meglio che mi avessero ammazzato?». Ma da lui nessun messaggio per la famiglia della vittima. «Ho provato a immaginare se, anziché a quei genitori, fosse toccato ai miei: proprio per questo qualsiasi parola avrebbe provocato solo rabbia perché, per quanto potessi esprimere rammarico, avrei dovuto comunque chiedere scusa per essermi salvato la vita. Cosa gli avrei detto? Riguardo all’opinione pubblica, purtroppo conosco bene il modo vergognoso in cui verrebbe strumentalizzata ogni mia frase». Anche perché «non sarò un chierichetto, ma ritengo che la sofferenza non sia merce da vendere in tv».
De Santis ci viveva, in quello spazio «occupato» vicino a Tor di Quinto, teatro degli scontri. «Devo accudire i miei cinque cani e con lo stipendio delle Poste non ce l’ho più fatta a pagare il mutuo. In cambio, mi occupavo della manutenzione degli spazi e di fare da guardiano». Arriva il 3 maggio. «Stava succedendo il finimondo. Sono uscito a vedere, anche perché sui campi occupati stavano giocando a calcio alcuni ragazzini. Si vedevano i fumogeni e si sentivano esplodere i "bomboni". Da casa mia al viale di Tor di Quinto ci sono 150 metri, lungo i quali si passa davanti a un gabbiotto dei Carabinieri. La cosa che ricordo di aver fatto, l’unica che non avrei dovuto fare, è stata raccogliere un fumogeno e rilanciarlo verso un pullman parcheggiato sul controviale che chiudeva completamente l’accesso. C’era già casino, ma non si vedeva bene, un po’ per il pullman, un po’ per i fumogeni. Improvvisamente, sono spuntate almeno 30 persone. Se fosse andata come sostiene chi mi accusa, avrei dovuto sparare al primo che mi capitava. Invece sono stato aggredito, ho cominciato a fuggire e ho preso bastonate e le prime coltellate. Ho provato anche a chiudere il cancello che divide i campi dal viale, dove si trovava la mia abitazione, provando a bloccarlo con le braccia e con una gamba che è rimasta sotto e che, per questo, si è quasi staccata completamente dal corpo. Ho arrancato ancora per qualche metro, poi li ho avuti ancora addosso. Ero convinto di vivere gli ultimi momenti della mia vita».
Poi il colpo di pistola. «E se non avessi premuto quel grilletto, sarei morto. Credo che in quel momento nessuno al mondo avrebbe potuto fare altrimenti». Per il romanista si è trattato di legittima difesa: «L’ho detto ai magistrati, non ho mirato, non volevo uccidere nessuno». L’amore per lo stadio scocca nel lontano 1978, anno del primo abbonamento. «All’Olimpico conosco tutti e tutti mi conoscono, ma non sono mai stato un leader né ho mai capeggiato un gruppo. Non c’ho mai nemmeno provato. Tra le tante sorprese, dai giornali ho saputo che avrei un soprannome, Gastone. Nessuno mi ha mai chiamato così. Mi chiamano Danielino dai tempi in cui pesavo 50 chili di meno». Poi smentisce anche i collegamenti con Mafia Capitale: «Se non stessi vivendo una tragedia mi verrebbe da ridere. Delle persone coinvolte non ne conosco nemmeno una e di quei fatti non so proprio nulla».
La violenza, però, quella è vera. «Di certo non faccio il santo, per cui non negherò che mi sia capitato di fare a pugni allo stadio. Ma la violenza non è prerogativa solo dello stadio. Gli episodi più gravi successi in passato, l’accoltellamento di un tifoso o altri incidenti mortali, sono sembrate sempre cose assurde anche a me. Chi mi conosce bene sa che io, se proprio devo, affronto lealmente le persone e che in vita mia non ho mai usato un’arma, nemmeno un taglierino. Figuriamoci un’arma da fuoco». De Santis è ancora piantonato in ospedale («Sono cosciente di non poter tornare più a camminare normalmente») e dovrebbe essere rioperato ma sul ricovero pesa la lentezza della burocrazia. Le indagini dovrebbero chiudersi entro febbraio, poi il processo. Dall’inizio di questa storia si sente vittima dei pregiudizi. «Si è dato spazio a qualsiasi ipotesi, anche la più assurda, pur di mantenere il punto. Partendo dal folle gesto di un pazzo scatenato all’agguato premeditato per motivi misteriosi, passando per i servizi segreti». «Per fortuna ci sono organi investigativi come il Racis che si fermano solo davanti alla verità», conclude riferendosi ai carabinieri secondo cui De Santis avrebbe fatto fuoco verso tre tifosi del Napoli mentre veniva aggredito. «Per ora la verità, oltre a chi c’era, la sa solo Dio».
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