rassegna stampa

Castan: “Pensavo di morire. Tornerò per lo scudetto”

"Se vado via senza aver vinto lo scudetto sarà come se non avessi mai giocato nella Roma" aggiunge il brasiliano

Redazione

L’incubo è quasi finito. Leo Castan ha ripreso ad allenarsi con la Roma dopo il delicato intervento al cervello e a breve otterrà l’idoneità dai medici per riprendere l’attività agonistica. Intanto racconta la paura degli ultimi mesi, l’operazione e la sua grande determinazione che lo sta aiutando a tornare calciatore.

Com’è iniziato il suo incubo?

«Nel primo tempo della partita con l’Empoli ho fatto uno scatto e ho sentito una fitta alla gamba sinistra. Volevo tornare in campo, Maicon si è avvicinato e mi ha detto: "Ti sei stirato, giusto?". E io: "no, sto bene", ma lui mi ha consigliato di non rientrare e mi sono fermato. Poi la sera ho avuto un giramento di testa. Pensavo di essere stanco, sono andato a dormire ma quando mi sono svegliato la testa girava ancora. Ho chiamato il dottore della Roma che ha mi portato dall’oculista. La vista era a posto, allora ho fatto una risonanza magnetica e lì hanno scoperto che nel cervelletto c’era questo corpo, grande come una fragola. Sono rimasto una settimana ricoverato al Campus Biomedico, i medici hanno studiato il caso. Secondo me loro hanno capito tutto in una settimana o due, hanno subito escluso il cancro o altre malattie gravi, ma solo dopo due mesi un radiologo mi ha spiegato esattamente cosa avevo».

Ha avuto paura in quel periodo di attesa?

«Tanta. I medici mi assicuravano che non avevo il cancro, però qualcuno lo scriveva su internet oppure me lo chiedevano i tifosi direttamente sui social network. Tutti dicevano questa brutta parola e io pensavo: "O mio Dio sto morendo". Allora un giorno ho riunito mio padre, mia moglie e i dottori per sapere la verità: "Se ho un tumore ditemelo perché sto per impazzire e voi mi nascondete qualcosa". Mi hanno ribadito che non avevo un cancro, poi ci ha pensato il radiologo a chiarirmi tutto».

Quando ha capito di doversi operare?

«A novembre il medico del Coni e quello della Roma mi hanno detto che se non avessi fatto l’intervento non avrei potuto più giocare. Questa malformazione in genere non dà problemi a parte i giramenti di testa, però c’era il rischio che prendendo una botta in campo esplodesse e causasse un’emorragia. Nessuno poteva prendersi una responsabilità del genere. La mia prima reazione è stata: "Grazie, per me è finita, torno in Brasile e basta". Ho parlato con mio padre e subito dopo sono andato da Sabatini. Quando sono entrato nel suo ufficio lui non mi ha neanche lasciato parlare e mi ha rassicurato: "Prenditi il tempo che vuoi, non fare niente di fretta, in ogni caso questa sarà sempre casa tua". Lo ringrazio perché se non mi avesse parlato in quel modo forse oggi avrei smesso. Dopo 4-5 giorni ho deciso di operarmi. Volevo farlo a gennaio per essere sicuro di trascorrere il Natale in Brasile, ma guardando una partita in tv ho capito che non potevo stare senza calcio e allora abbiamo anticipato».

Il momento più brutto?

«Il giorno prima dell’operazione è stato il più difficile. Provavo a scherzare ma ero molto nervoso. Ho chiesto al chirurgo, Giulio Maira, se potevo mangiare un panino del Mc Donald’s, almeno se fosse stata la mia ultima cena me la sarei goduta! Poi la mattina presto, quando ero sul lettino per andare in sala operatoria, ho dato un’occhiata alla mia famiglia e stavano piangendo tutti. I dieci minuti successivi sono stati tremendi. Ero solo e impaurito ad aspettare. Li ricorderò per sempre».

E dal risveglio in poi?

«Ho avuto problemi a tutta la parte sinistra del corpo. Se mi giravo su quel lato per guardare vedevo sfocato. Una volta in piedi ho dovuto imparare da capo a camminare, più tardi a correre. La gamba destra andava da sola, la sinistra no: serviva che mi concentrassi per muoverla. Mi avevano avvisato prima, per fortuna non ho avuto danni permanenti e tutto è tornato alla normalità».

Adesso a che punto è?

«Ancora non so quando tornerò, voglio fare con calma senza sbagliare e rientrare al 100%. A luglio devo essere al livello dei miei compagni per iniziare la preparazione, se poi dovessi riuscire ad andare almeno una volta in panchina in questo finale di stagione sarebbe una grande gioia. Ho già ripreso a lavorare con i compagni, ora posso colpire di testa e tra 15-20 giorni avrò la visita d’idoneità. Mi avevano consigliato di usare un caschetto la prima settimana ma ho preferito di no, altrimenti rischiavo di abituarmi e non toglierlo più».

Questa esperienza l’ha rafforzata?

«Il destino mi ha messo di fronte a una sfida e io la sto vincendo. Succederà alla prima partita che gioco: la mia vita è normale solo se c’è il calcio dentro».

La Roma avrebbe tanto bisogno di lei nel derby al penultimo turno. Impossibile?

«È un sogno, vediamo, ma non voglio più dare una data del mio rientro perché non posso deludere nessuno».

La Lazio sopra di voi in classifica che effetto fa?

«È un periodo difficile, secondo me il peggio è passato, la partita di Torino l’abbiamo giocata bene e ci dà fiducia. Loro vivono un momento positivo, ma mancano 8 partite e, come ha detto Garcia, l’importante è chi arriva secondo alla fine».

Guardandola da fuori, cosa è successo a questa squadra?

«Difficile dirlo. Abbiamo avuto tanti infortuni. Si dice che manchiamo io e Strootman? Ma noi non abbiamo giocato quasi per niente quest’anno e i primi sei mesi la Roma ha fatto bene lo stesso».

Il Porto ha battuto il Bayern in Champions, voi ne avete presi sette.

«Contro di noi erano al completo, ma di sicuro potevamo fare meglio. La qualificazione non l’abbiamo persa in quella partita, semplicemente non eravamo pronti per la Champions. Io ad esempio non l’ho mai giocata. Ci serviva fare esperienza, il prossimo anno dobbiamo riprovarci e faremo senz’altro meglio».

Prima dovete arrivare secondi però...

«Può essere una rivincita del 26 maggio. Quella è stata la partita che ho giocato peggio nella mia carriera. Al Corinthians in 3 anni ho fatto diversi derby ma lì a San Paolo ci sono quattro squadre della città. Qui solo due e allora è una partita ancora più sentita dai tifosi, forse troppo. L’ho capito appena arrivato e ora anch’io sono entrato in clima derby: non ci sto ad arrivare sotto di loro».

La sua idea sullo scontro tra Pallotta e gli ultrà?

«Quello che penso veramente non lo posso dire, ma sono d’accordo con il presidente: nel calcio non deve esserci razzismo o violenza. Il resto lo tengo per me».

L’ambiente di Roma condiziona davvero i risultati?

«Qui si deve stare molto attenti perché quando si vince sono tutti fenomeni e quando si perde tutte merde. È più pericoloso quando le cose vanno bene: se pensi che sei troppo bravo rischi, quello invece è il momento di lavorare duro».

I giocatori ascoltano le radio?

«Forse gli italiani, ma sono pochi. Io sinceramente no, ho amici romani che mi raccontano qualcosa su quello che dicono. La squadra avverte di più le critiche quando è all’Olimpico, si percepisce subito se le cose vanno bene o male. I tifosi vogliono che giochiamo bene, sappiamo che non lo stiamo facendo e allora spetta a noi far tornare la gente dalla nostra parte».

La difesa senza di lei non funziona come prima.

«Non posso andare contro i miei compagni e non penso che abbiano fatto così male, basta vedere i numeri. Non è una questione dei soli difensori, dobbiamo lavorare tutti insieme per tornare ai livelli dello scorso anno».

La coppia Manolas-Castan vale Benatia-Castan?

«Ora non posso dirlo, abbiamo giocato insieme appena 45’ a Empoli. Kostas è forte ma non basta mettere due giocatori bravi accanto, bisogna trovare intesa. Con Benatia ci siamo trovati subito bene. Vedremo quando torno, ci sono anche Astori e Mapou, tornerà Romagnoli che può diventare bravo come Marquinhos. Lui è già un top player».

Garcia è cambiato?

«No, è solo più arrabbiato perché i risultati non arrivano. Non c’è altra cosa da fare che continuare con lui. Il primo anno è andato benissimo, ora siamo terzi e possiamo arrivare secondi, il resto sono discorsi che non esistono. Quando sono arrivato la Roma non giocava neppure in Champions, ora siamo vicini a farla per due stagioni di fila. E allora non vedo perché dovrebbe andare via l’allenatore».

Il rapporto con Sabatini?

«Prima che mi acquistasse ha iniziato a chiamarmi da febbraio. Gli sono affezionato perché mi ha portato in Italia e mi è stato vicino in questo periodo. Voglio tornare in campo anche per dare una mano a lui che insieme a Garcia soffre più dei tifosi per la Roma».

Ha detto più volte: "sono qui per lo scudetto".

«Se vado via senza averlo vinto sarà come se non avessi mai giocato nella Roma. Non voglio che tra 10-15 anni si ricordino di me come un ragazzo che ha fatto l’intervento al cervello. No, devono ricordarmi come uno di quelli che ha vinto lo scudetto».

Voi Atleti di Cristo chiedete spesso aiuto a Dio. Ma non le sembra "poco religioso" nei confronti degli avversari?

«Io non gli ho mai chiesto di farmi vincere o far perdere un altro, ma di liberarmi dal male. Poi certo, quando vai a calciare un rigore e preghi gli dici: "Dio aiutami a non sbagliare altrimenti sono morto!"».

Nel vostro gruppo c’è anche Felipe Anderson.

«Sì, è un bel giocatore e un bravo ragazzo. Ma non arriverà secondo, mi dispiace per lui... ».

«Io sono secondo», c’è scritto anche sul braccialetto che indossa Leo. «Perché il primo è Dio». Altro che Juventus.