rassegna stampa

Rocca: “Adoro Klopp, in panchina è Kawasaky”

L'ex terzino giallorosso negli anni Settanta: "Mi sento allenatore dentro e le mie idee sono molto vicine a quelle del tedesco. Insegna il calcio che piace a me: lavoro, tecnica e grinta"

Redazione

Francesco Rocca è intervistato da Ugo Trani per Il Messaggero. Ecco uno stralcio delle sue dichiarazioni:

"Quel giorno capii da solo quanto nello sport conta la preparazione fisica, anche se poi ho dovuto aspettare di studiare per averne la conferma. Feci piangere D'Amico nel derby solo perché lo sfidai sulla corsa. Se avessi voluto fare il fenomeno e metterla sulla tecnica, sarei stato umiliato. Abbracciai Vincenzo a fine partita e gli dissi che solo così avrei potuto vincere il duello sulla fascia".

Francesco Rocca è come se non avesse mai smesso di correre. E lo fa, nella sua chiacchierata, per staccarsi dal suo passato di giocatore che proprio non gli interessa. Non è snobismo. "Ho fatto il mio dovere con passione, felice di giocare per la mia Roma. E, a dirla tutta, mi sono anche divertito. Fino all'infortunio".

Ne parla seduto sul divano della sua casa all'Eur. La vista, dal suo salone, dà verso il Tre Fontane, distante poco più di 500 metri. Lì, sul campo dove oggi gioca la Primavera, si è spento il motore di Kawasaki. Ottobre del 1976. Alla parete, vicino alla finestra, anche la maglia dell'Hall Fame. Sta lì e fine.

La sua carriera, di calciatore e tecnico, è stata spesso romanzata. Dove è finita la verità sul suo percorso in questo sport?

"Di falsità ne ho ascoltate, ma non rispondo. Mi interessa raccontare come vedo io questo mestiere e non quello che fanno gli altri".

Da quasi 3 anni è fuori dal calcio: perché?

"Ho deciso io. Stop, rinunciando al rinnovo che mi proposero Tavecchio e Uva. Addio alla Federcalcio dopo più di 30 anni".

E' d'accordo con chi la definisce scomodo?

"Io? Ho sempre lavorato per gli altri. Cioè per fare esprimere al meglio il giocatore. E per far funzionare l'impresa che mi affida la gestione di un gruppo. Cioè fissando sempre un obiettivo. L'infortunio mi ha costretto a prendere una via che non avevo certo messo in preventivo. Partendo da tre principi: imparare, operare e insegnare. L'Isef è stato il primo step della mia preparazione. Dovevo conoscere la macchina umana. Ma continuo a leggere anche oggi: testi di fisiologia e di medicina dello sport".

Solista, però, sì. Conferma di aver giocato, in panchina, sempre in proprio?

"Certo. La responsabilità è mia e basta. Il mio staff è al massimo di tre uomini. Io, il mio vice e il preparatore dei portieri. Non delego a nessuno. Quando ho avuto la possibilità mi sono occupato anche dei portieri. Nella mia lunga esperienza con le nazionali ho sempre curato l'alimentazione. Ovviamente confrontandomi con i medici. Ma ho sempre deciso io. Nessuno con me è stato mai a dieta. E non ci sto nemmeno io. Carboidrati, pasta anche condita. Ho appena mangiato due cioccolatini. L'alimentazione, però, deve essere calibrata e mirata. Quando la sbagli, diventa tossica".

Previsione: quanto starà ancora fermo?

"Io sono pronto, ma l'età non mi aiuta. Ho solo una curiosità".

Quale?

"Allenare in un club. E' più facile che in nazionale. In azzurro ho sempre avuto poco tempo. E accogli giocatori che non sono i tuoi e che arrivano con preparazioni differenti. Se invece il tuo piano è annuale hai la possibilità di programmare. E di dividere bene il lavoro".

Chi potrebbe chiamarla?

"Chi vuole vincere...".

Addirittura?

"Io sono così. Ho sempre firmato per un anno. Mi confermi solo se arrivo a dama. In nazionale ho sempre pensato che l'Italia dovesse arrivare tra le prime 4. E spesso ci sono riuscito. È come il piazzamento con il club in zona Champions. Se fallisco, me ne vado".

Quale metodo porterebbe in dote?

"Si chiama Squadra 25. È la rosa ideale, con 3 portieri, 8 difensori, 8 centrocampisti, 4 attaccanti e 2 jolly. Il sistema di gioco è il 4-4-2. Il migliore per fare il pressing sui portatori di palla e sui centrali difensivi. Linee strette, assetto cortissimo. Ma si possono usare altri moduli. Il giocatore deve dare la disponibilità per qualsiasi ruolo".

Il calcio più bello?

"Quello dell'Olanda. L'Ajax di Kovacs e la loro nazionale. Solo calciatori completi: Jongbloed, Suurbier, Krol, Neeskens, Rijsbergen, Haan, Rep, Jansen, Van der Kuylen, Cruijff, Van Hanegem, Van der Kerkhof, Rensenbrink".

Quale allenatore avrebbe oggi di riferimento?

"Nel metodo, quello che più mi è vicino è Klopp. Qualche giocatore mi ha raccontato come lavora. Fa quello che piace a me. E si vede dall'atteggiamento del Liverpool in campo".

Ha passato la vita lavorando con i ragazzi. Quale è il suo settore giovanile ideale?

"Quello che porta i giocatori in prima squadra. Pronti. Il calcio è business. Se la proprietà investe sui giovani, poi deve vedere i risultati. Il verbo da usare è forgiare. Il settore giovanile deve rinforzare, in ogni stagione, la rosa per la serie A. Evitando di spendere per altri giocatori, magari presi all'estero. E regalando i tuoi in giro per l'Italia. Ora con le seconde squadre non bisogna sprecare la nuova chance".

Di che cosa va fiero?

"Di aver puntato solo sulla meritocrazia. Così ho sempre allenato, cercando di far esprimere al meglio i miei calciatori. Pensando alla loro salute, come non è stato fatto con me: mai ho restituito un calciatore a un club con un infortunio muscolare".