Era tra i pilastri di un mondo antico, che da tempo non c’è più: nel Messaggero degli Anni 70 e 80, Fulvio Stinchelli, per noi un po’ più giovani, era «il barone». Per la flemma, il distacco con cui affrontava ogni grana: comprese quelle professionali.
rassegna stampa
Addio Fulvio, Professore della Roma
Il ricordo da parte di colleghi del giornale dove scriveva il "barone" soprannominato così per la flemma, il distacco con cui affrontava ogni grana: comprese quelle professionali.
Poi, si è inventato una rubrica sportiva che durò per decenni: è divenuto «il Professore»; ha trovato la sua misura, il suo compimento. Aveva 86 anni: nel giornale d’allora, che era anche genio e sregolatezza, stava assai a proprio agio. Aveva iniziato come corrispondente da Parigi: scovato da un proprietario-direttore di grandi naso e fiuto come «Sandrino» Perrone, suo amicissimo; in Francia, aveva rappresentato la Fiat. E già da lì, ogni domenica, chiedeva della Roma.
Un suo zio, Peppino, era tra i fondatori della società; si era chiamato Fulvio dal nome del suo padrino, Bernardini: lo aveva battezzato con un altro immenso della sfera, Attilio Ferraris, cioè Ferraris IV. Era un destino. Il suo libro principale si chiama «(La) Roma, una vita».
Il giorno dopo ogni «derby», s’intende se i giallorossi non avevano da lacrimare, lo sfottò più acuto era il suo. «Il derby perpetua la lotta fratricida di Romolo e Remo», disse una volta: quindi, c’era da darsi da fare. Eppure, ne aveva visti dal vivo soltanto due: nel 1941 e nel 1984; e nessuno vinto dalla sua squadra. Nel secondo, se ne andò quando la Roma perdeva due a zero: a casa seppe che aveva pareggiato.
Stava in prima linea quando il giornale rischiò un destino «clerico-fascista» (si scriveva allora): e per decenni, il suo ritratto è stato sul «murale» nella stanza dei grafici, in abiti da moschettiere. Ogni tanto, gli veniva fuori un fondo di carattere alquanto fumantino. Non sopportava, mai, imposizioni: in nessun settore. La sua prima passione erano stati i cavalli; mai rinnegata: ne ha scritto ancora, a 80 anni. Ma cavaliere, lo era diventato della Roma: un premio che, intitolato all’indimenticabile Lino Cascioli, gli era stato conferito appena due anni or sono. Sotto i suoi baffi s’atteggiava spesso a sornione; e magari meditava i più salaci calembour verso qualche collega. A un certo punto, al giornale arrivò, da «Gente», anche sua moglie, Carla Pilolli: nessuno sapeva come lei le storie (e soprattutto i segreti) delle grandi famiglie. Però, tra i libri di Fulvio, «barone» e soprattutto «Professore», vero giornalista specialmente delle pagine e rubriche sportive, ce n’è anche uno sui «Mille anni a Roma» dei Ruspoli: 200 pagine di non troppo tempo fa. Un suo aforisma era: «Lascia perdere il giornalismo, è un mestiere difficilissimo; cerca di fare altro»; poi, però, ammetteva che voleva praticarlo fin da ragazzo.
Indimenticabile quando un direttore, non «Sandrino», gli ordinò di partire di corsa per un servizio, e l’indomani se lo trovò davanti: «Solo i camerieri partono il giorno in cui glielo si dice». Frequentava le «famiglie bene», la nobiltà d’ogni ordine e grado; spesso, sembrava che ci guardasse un po’ dall’alto. Non era così: dentro lui batteva, comunque, un grande cuore. S’intende, giallorosso. «Barone» e «Professore», addio: ti sia lieve la terra, e ti resti lievissima la «pelota», come diceva Gianni Brera.
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