Il Professor Angelo Pompucci, neurochirurgo, dirigente di I livello presso l’unità di Neurotraumatologia del Policlinico Gemelli, è stato intervistato e le sue parole sono state riportate sull'edizione odierna del Corriere dello Sport. Prima domanda: cos’è il cavernoma? «Una malformazione vascolare, di fatto congenita, formata da piccole lacune venose, assimilabile come forma ad una mora. Queste “bolle” hanno una struttura molto fragile: ci sono nel tempo microrotture seguite da microsanguinamenti. Il sangue contiene ferro e il ferro conduce un segnale molto tipico che permette l’identificazione della lesione con la risonanza magnetica. Può portare a disturbi focali, a seconda della localizzazione anche a crisi epilettiche, o semplicemente a disturbi transitori. Spesso il cavernoma è asintomatico: viene scoperto con una risonanza magnetica occasionale. E’ una malformazione che evolve, tende a crescere, una specie di tumore vascolare, usando il concetto del tumore non per la natura biologica ma per la tendenza all’aumento di volume. Dal punto di vista della terapia, è esclusivamente chirurgica».
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Il Neurochirurgo: “Chirurgia l’unica via, ci sono rischi da calcolare”
Dopo una craniotomia di questo tipo, si può tornare all’attività agonistica? «Ci sono atleti che non sono tornati in campo, o calciatori che hanno ripreso a giocare utilizzando un caschetto. Dipende molto dalle differenze tra i vari casi....
Che tipo di intervento neurologico è necessario? «Una chirurgia selettiva - risponde il professore - bisogna raggiungere il cavernoma sacrificando la minore quota di tessuto cerebrale, cerebellare o midollare. Serve un’attenta conoscenza delle immagini diagnostiche per individuare la traiettoria più sicura. Bisogna rimuvere il cavernoma senza sacrifici lungo il percorso. L’incidenza stimabile è molto bassa, 15 casi si 100.000 individui. Molto spesso la diagnosi è occasionale. Nel caso specifico di Castan, la lesione si localizza nella zona cerebellare».
Spieghiamo: «E’ una struttura che congiunge il cervelletto con il sistema nervoso volontario. Il cervelletto funge da freno motore, per così dire: serve a organizzare il movimento, a renderlo armonico. Un paziente con sindrome cerebellare, invece, è soggetto ad atassia: il movimento è disorganizzato e impreciso, non si è in grado di toccare la punta del naso con l’indice, oppure il movimento è esagerato, in difetto o in eccesso. Altri disturbi possono essere il tremore, oppure una lateropulsione, un movimento sbilanciato, l’impossibilità di seguire un percorso lineare». E se pensiamo ad un atleta... «Appunto, il cervelletto ha una funzione ancora più importante». La chirurgia è l'unica via. E se non si intervenisse? «I rischi dipedono dalla localizzazione della lesione. Quando è scoperta per caso, si preferisce monitorarla. Però il cavernoma può portare al sanguinamento, a uno sbandamento improvviso. Se è localizzato in zona cerebellare, non c’è il rischio di crisi epilettiche. Si interviene se c’è un basso rischio chirurgico, altrimenti si preferisce un approccio conservativo».
Dopo una craniotomia di questo tipo, si può tornare all’attività agonistica, in uno sport dove la testa è sottoposta a sollecitazioni importanti, anche traumatiche?
«Il foro prevede un’incisione dietro la nuca, diciamo di 4-5 centimetri di diametro. Poi si tende a favorire una ricostruzione completa, la breccia ossea viene riparata, con sistemi di chiusura molto efficaci, in titanio. Penso che il rischio meccanico possa essere considerato accettabile. In alcuni campi, per esempio per i militari, una craniotomia determina l’inabilità al servizio. Ci sono atleti che non sono tornati in campo, o calciatori che hanno ripreso a giocare utilizzando un caschetto. Dipende molto dalle differenze tra i vari casi. Così come sono variabili i tempi di recupero».
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