rassegna stampa

Ma io terrei Lucho

(Corriere dello Sport – P.Torri) Insultatemi pure, ma io continuo a credere in Luis Enrique.

Redazione

(Corriere dello Sport - P.Torri) Insultatemi pure, ma io continuo a credere in Luis Enrique.

Anzi, meglio, nella cosa,progetto,idea,chiamatela come vi pare, che vuole (vorrà) essere questa nuova Roma che parla americano con accento toscano, umbro, romano. Che, in assoluta controtendenza con un calcio italiano che definire ingessato è un complimeneto, ha intrapreso un percorso diverso.

Dove le idee valgono più degli amici degli amici. Riappropriandosi della sua storica indipendenza da tutti e tutto. Rompendo gli schemi. Scegliendo un allenatore che prima di qualsiasi altra cosa, voleva e vuole essere un segnale di discontinuità nei confronti del passato remoto e prossimo, non cercando facile consenso che sarebbe stato sin troppo semplice avere confermando, per esempio, il pur bravissimo Vincenzo Montella.

Dunque, Luis Enrique. Che, fin qui, ho seguito con la curiosità dell’innamorato di calcio e che, almeno fino alla trasferta di Torino contro la Juventus, avevo cercato di capire e accompagnare senza troppi tentennamenti o perplessità, nella convinzione che il percorso sarebbe stato in ogni caso lungo e complicato. Poi, è vero, è nato anche in me il dubbio.

Non tanto per le quattro pappine beccate dalla Vecchia Signora, quanto per come sono state prese. Cioè nell’unica maniera che non ci saremmo mai aspettati dall’hombre vertical. Ovvero rinnegando se stesso, otto mesi di parole e fatti in cui la nostra proposta di calcio sarà comunque e ovunque sempre la stessa, per poi scoprire Totti in panchina e Perrotta in marcatura su Pirlo. Un errore grossolano che certo non è stato l’unico in questa tormentata prima stagione italiana dell’allenatore asturiano. E allora, direte voi, perché continuare con Lucho? Da sempre affascinati dal sogno che sconfina nell’utopia (per questo ho sempre amato Zeman) e ricordando anche a tutti, pure a chi è in malafede, che sarebbe utile non dimenticare mai da dove è partita questa Roma, una serie di risposte provo a darvele.

Perché rinnegare subito il percorso vorrebbe dire aver buttato una stagione e dover ricominciare da capo. Perché, seppur a sprazzi e l’ultima volta appena tre settimane fa contro l’Udinese, la Roma ha fatto vedere di poter giocare un calcio da amare. Perché la Juventus che è a un passo dallo scudetto è reduce da due settimi posti e critiche a non finire. Perché lo dicono i calciatori, ultimo Daniele De Rossi che, nel pur amarissimo dopo partita con la Fiorentina, non aveva nessun obbligo di dire certe parole nei confronti del suo allenatore appena arrivato alla quattordicesima sconfitta in campionato. Perché anche il capitano, Francesco Totti, ha avuto parole importanti nei confronti dell’hombre vertical.

Perché il ct Prandelli,mica pizza e fichi, non più tardi di qualche giorno fa in visita a Trigoria, è stato l’ennesimo tecnico che ha parlato di Luis Enrique come di un grande allenatore. Perché dirigenti come Baldini e Sabatini che potranno avere mille difetti ma non quello di non capire di calcio, sono stati conquistati dalle idee dell’asturiano. Perché un anno di campionato italiano sono convinto che allo spagnolo abbia fatto capire che il nemico non sono i giornalisti (almeno non tutti). E perché, soprattutto, mi farebbe un grande piacere vedere Luis Enrique al timone di una Roma costruita per il suo calcio, con due esterni di qualità, una coppia di centrali difensivi un po’ più garantita di quelle viste in questa stagione, un centrocampista di interdizione che completi le caratteristiche di un reparto poco omogeneo. Non si poteva fare tutto in un anno. Per questo chiedo alla corte di andare in appello.